La pace negli scritti di don Tonino Bello, di Michele Illiceto – I latini dicevano: “Si vis pacem, para bellum” (Se vuoi la pace prepara la guerra”). Il grande intellettuale cattolico Ernesto Balducci tra la fine degli anni ‘70 e gli inizi degli anni ‘80, invece rovesciava questo detto latino e diceva: “Se vuoi la pace prepara la pace” (slogan già usato da Sandro Pertini).
E allora il vero nemico della pace non è dato da quelli che costruiscono armi, ma da coloro che se ne stanno zitti e che si fanno i fatti loro, permettendo ad altri di farlo. Essi fanno questo non perché sono cattivi ma perché si sono arresi, scoraggiati. Sono scettici.
Il vero nemico della pace, dice don Tonino, è lo scetticismo
Non lo scetticismo ragionato e intelligente che fa del dubbio il motore del pensiero e del sapere, ma lo scetticismo “facile”, che si veste di ragioni culturali, ma che in fondo attinge alle scaturigini della superficialità qualunquistica”.
La pace non va vista come qualcosa di eccezionale, ma comequalcosa di feriale. Bisogna abbinare la pace alle parole della quotidianità. Per cui, più che di “marce della pace” dovremmo parlare di “percorsi quotidiani”. La pace, scrive il vescovo di Molfetta, “cresce anche nelle pieghe sotterranee dell’esistenza”. Nasce in casa e si diffonde per le città, passando per i quartieri e per le strade, per le comunità di ogni tipo. “Al di là dei velluti delle tavole rotonde, la pace si costruisce sul ruvido tavolo del falegname come sul desco del contadino, sulla cattedra dell’insegnante come sulla scrivania dell’impiegato, sullo scanno dello scolaro come sulla mensola della casalinga, sull’impalcatura del metalmeccanico, come su ogni banco impoetico dove si consumano le più oscure fatiche giornaliere”.
E allora dobbiamo “fabbricare una pace fatta in casa”.
“Non abbiamo bisogno di eroi della pace ma di costruttori di pace”
Di profeti. Solo che “Ogni gesto profetico crea sgomento. Colloca sui cornicioni. Provoca la vertigine della solitudine. Scatena la tempesta delle contraddizioni. Ma dona l’ebbrezza della verità”.
Don Tonino paragona il profeta della pace a Giona, il quale solo dopo il naufragio, trova la forza per vivere la sua missione. Dobbiamo naufragare nel mare della diffusa incomprensione. Così è per il profeta della pace: egli “annuncia la conversione (non sovversione) solo dopo essere passati attraverso il nubifragio della paura. Della irrisione. Della solitudine. Del sacrificio”. Il profeta della pace sa di esporsi al fallimento.
Per tale ragione “Il popolo della pace non è un popolo di rassegnati”. Anzi, i costruttori di pace sono uomini e donne di speranza e non disperati. Don Tonino cita un verso di D. M. Turoldo: «Come una vela il grembo si inarca, / sopra la terra si inarca in attesa; / dentro Lo Spirito plasma e fermenta: / sta per fiorire di nuovo il creato» (25).
Per il vescovo in odore di santità la pace è un cumulo di beni. È la somma delle ricchezze più grandi di cui un popolo o un individuo possa godere. Pace è giustizia, libertà, dialogo, crescita, uguaglianza. Pace è riconoscimento reciproco della dignità umana, rispetto, accettazione dell’alterità come dono. Pace è rifiuto di quelle posizioni filosofiche del catastrofismo degli ultimi anni secondo cui “l’uomo non è più di moda” e va disormeggiato con tutta la sua storia.
La pace è una ricchezza, posseduta la quale, si possiedono tutti gli altri beni. Senza di essa c’è impoverimento, come anche è difficile assicurarla in condizioni di miseria e di sottosviluppo. La pace è la ricchezza dei poveri e dei piccoli e non dei potenti. Anzi i potenti hanno paura della pace perché la pace non fa fare soldi: “Riappropriamoci, come popolo dei poveri, di una ricchezza che ci appartiene. Democratizziamo la pace”.
Ma la pace per realizzarsi ha bisogno di parole nuove.
Anzi di parole antiche che sono state rimosse dal lessico dei potenti perché troppo difficili da tradurre nella prassi e nella vita di tutti i giorni. Dovremmo chiedere a Dio il potere di “ridare alle parole il senso originario” (cfr. 147) per superare la “sindrome dei significati stravolti”. Gli altri nomi della pace sono “tenerezza, stupore, umiltà, amicizia e dialogo, poesia e umiltà, impegno e speranza”. Ma anche “perdono e comunione”. Tutte queste parole sono – dice don Tonino – le “armi della Pace, senza di che la Pace delle armi, nel migliore dei casi sarà la Pace dei cimiteri”. La pace è stata disarmata prima nelle parole e poi nelle scelte e nelle azioni.
Invece le parole della pace sono davvero rivoluzionarie e capaci, se usate e bene, di mettere in atto un radicale ribaltamento culturale. La pace, continua don Tonino, sembra una casa con tantissime porte chiuse. Ognuna di esse ha un nome: giustizia, libertà, verità, progresso… Ma di tutte abbiamo perso la chiave! Sviluppo e solidarietà sono le chiavi della pace. “Sviluppo è il nuovo nome della pace” come aveva già indicato Paolo VI.
L’unico vero luogo dove la pace può davvero nascere è sul volto del fratello. Per questo non c’è pace senza fraternità. Don Tonino ha letto qualcosa del filosofo Levinas il quale ha scritto che sul volto dell’altro è scritto il comandamento più grande “Non uccidere!”.
Il volto come luogo sacro dove Dio ha posta la sua immagine e la sua dimora.
E volto in greco (prosopon) significa persona. Ecco la conseguenza: nessuna persona può essere oggetto di violenza alcuna. Per questo don Tonino afferma che: pace è il frutto di quella che oggi viene indicata come “etica del volto”: un volto da riscoprire, da contemplare, da provocare con la parola, da accarezzare. Pace è vivere radicalmente il “faccia a faccia” con l’altro. Non il teschio a teschio. Vivere il “faccia a faccia”, non con gli occhi iniettati di sangue, ma con l’atteggiamento del “disinteresse”. Anzi, del “dis-inter-esse”, scritto di proposito in tre pezzi, come osserva il teologo e filosofo Italo Mancini, per dire che nel movimento di fondo del faccia a faccia, indicato dal pezzo intermedio (“inter”), quello che io debbo fare è depotenziare (“dis”) la pretesa del mio essere (“esse”) a porsi come sovrano. Pace, perciò, è “deporre l’io dalla sua sovranità, far posto all’altro e al suo indistruttibile volto, instaurare relazioni di parola, comunicazione, insegnamento; quello che categorie mistiche, che possono essere lette in senso etico, esprimevano con la parola abbandono e svuotamento. Prima ancora che fatto politico, la deposizione è un fatto di giustizia e di alta moralità”.
Da ultimo, don Tonino ha ribadito che “La pace è un valore senza frontiere” ha detto Giovanni Paolo II. “Anche senza frontiere religiose. Queste, anzi, devono essere le prime a cadere”. Insieme esse costituiscono la “materia prima della Pace, senza la quale anche le più autorevoli Cancellerie diplomatiche potranno offrirci solo ambigue sofisticazioni e sterili surrogati”. Per questo bisogna passare dalla logica del potere a quella del servizio. I potenti e i grandi di oggi pensano che la pace sia il “vaneggiamento dei fragili”. Ma noi dobbiamo rovesciare questa logica della prepotenza. E anziché cercare lo scettro dobbiamo metterci il grembiule. Ma per cingerci del grembiule dobbiamo lasciare le vesti del potere.
“Come Chiesa non dobbiamo rivestirci dei segni del potere”
“Come Chiesa – dice don Tonino – non siamo chiamati ad entrare in competizione, non dobbiamo rivestirci dei segni del potere. Noi abbiamo il potere dei segni, non i segni del potere”. Non il potere di risolvere tutti i problemi, ma quello di accendere piccole luci di speranza. E qui don Tonino cita il poeta Edmond Rostand: “C’est la nuit qu’il est beau d’attendre la lumière; il faut forcer l’aurore à naître en y croyant” (“è di notte che è bello aspettare la luce; bisogna forzare l’aurora a nascere, credendoci”). La fatica di chi lotta per la pace non è come la fatica di Sisifo. Questo significa che la pace non è frutto della paura ma dell’amore. È “convivialità delle differenze” ed esige il “riconoscimento dell’alterità e non la smania dell’omologazione”.
E allora non bisogna smetterci di emetterci di crederci. La speranza non delude perché non illude. Ecco perché don Tonino scrive: «Non demordete: la coerenza paga, anche se con qualche ritardo. Paga anche l’onestà. E la speranza non delude!».
E riprendendo una poesia di Danilo Dolci don Tonino dice che la pace nasce solo se riusciamo a impastare i sogni con la sabbia: “La città nuova inizia dove un bambino impara a costruire, provando ad impastare sabbia e sogni inarrivabili”.
Don Tonino Bello (1935 – 1993) è stato vescovo di Molfetta dal 1982. Fu educatore in seminario e parroco. Costruttore di pace è stato presidente nazionale del movimento “Pax Christi” dal 1985. Molto vicino ai poveri, agli immigrati, agli ultimi, è stato un pastore molto amato e autore di numerosi libri: “Scrittore ispirato, profeta della speranza si è imposto all’attenzione del pubblico per la profondità del messaggio, la freschezza e l’originalità dello stile”, così lo descrive la casa editrice San Paolo. Nel 1996 fu premiato alla memoria come autore dell’anno al Salone del Libro Religioso di Milano. Attualmente è in corso il processo di beatificazione.
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