Conversazione con Georg Bätzing, presidente della Conferenza episcopale tedesca. Pubblichiamo l’intervista „Ich will Veränderung”, apparsa su Herder Korrespondenz 1/2021. Nell’intervista Georg Bätzing, presidente della Conferenza episcopale tedesca nonché vescovo di Limburg fa il punto della situazione sulla chiesa cattolica tedesca. Affronta il tema dell’elaborazione degli abusi sessuali all’interno delle diocesi, del processo di riforma in corso nella chiesa tedesca, il Synodaler Weg (Cammino sinodale), e dei rapporti non facili con Roma, segnati da disaccordo sul alcuni temi, ma sempre pervasi dalla volontà di portare avanti un dialogo costruttivo e mai attraversato da desideri di rottura.
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A causa dello scandalo degli abusi sessuali è diventato sempre più forte l’appello di riforme. Fra la conferenza episcopale tedesca e Roma ci sono state ultimamente tensioni. Come si pone il presidente della DBK a riguardo? Per questo abbiamo parlato con Georg Bätzing.
Di Stefan Orth e Volker Resing.
Vescovo Bätzing, da un anno è presidente della Conferenza episcopale tedesca, ma di Lei, come persona, si sa poco. Viene da una famiglia cattolica fino in fondo, ha detto una volta. Che cosa intende?Era cattolica, naturalmente, nell’ambito dell’allora chiesa popolare. Nel mio paese Niederfischbach la maggior parte delle persone era cattolica. La messa non era sentita come un dovere ma come qualcosa di normale di domenica e nei giorni festivi. Mio padre lavorava nelle ferrovie ma era anche musicista di chiesa e in questo modo si è realizzato nella musica.
La sua famiglia era rigorosamente cattolica?
No, la mia famiglia non era né bigotta né cattolica in maniera insistente, era normale. Anche se l’Eucarestia era importante e in casa si pregava, la chiesa non era al centro: potevamo pensare e agire, come ritenevamo in modo responsabile.
C’erano discussioni con i genitori?
Non su posizioni riguardanti la chiesa. Ma in casa dei miei c’era anche un tratto critico, ossia non accogliere opinioni in maniera indiscussa, non intraprendere strade senza esaminarle. Per questo i miei genitori sono stati critici ma anche un sostegno di fronte alla mia aspirazione professionale, che fra l’altro si è manifestata molto presto. Volevo frequentare il liceo perché già allora volevo farmi prete. I miei genitori mi hanno sempre detto: “Fallo, ma sai anche che non possiamo aiutarti molto”.
Come è nato questo desiderio di diventare prete?
Il fascino per la celebrazione eucaristica sta all’origine della mia vocazione. Non so più quando l’ho sentito per la prima volta in modo riflessivo, ma è stato molto, molto presto. Già dalla prima elementare sapevo di voler diventare prete. Ancora oggi quando i cresimandi mi chiedono se avessi mai avuto un altro desiderio professionale, rispondo sempre, “veramente, a essere sincero, no”.
Quali sono le differenze fra oggi e allora?
Il mondo è cambiato completamente. Sono cresciuto in un clima positivo di ecclesialità. Ho sempre vissuto la chiesa come qualcosa di liberatorio: nell’impegno come chierichetto, nell’impegno nei gruppi giovanili, nella musica, con le possibilità di impegnarsi e di evolversi in uno spazio ampio di possibilità di crescita, di essere accolti e di poter sperimentare, il tutto in un’atmosfera positiva.
Quali cambiamenti nella chiesa dalla sua infanzia e giovinezza sono stati particolarmente positivi e sono rimasti importanti?
È positivo che un certo tipo di chiesa sia finito. Fin dall’inizio dei miei studi, poi negli anni successivi e anche come padre spirituale in diverse posizioni ho vissuto anche l’altra faccia della medaglia di questo tipo di chiesa popolare, ossia la pressione che veniva esercitata, la mancanza di libertà che regnava, l’indecisione nelle questioni di fede. Il contesto nel quale viviamo ora è più consono alla fede cristiana. Non vorrei mai tornare indietro.
Lei voleva diventare parroco e non lo è mai diventato…
A proposito, dalle mie parti si dice pastore. È vero, volevo diventare pastore e non lo sono mai diventato. Sono stato vent’anni attivo nella formazione dei sacerdoti, poi sono stato direttore dei pellegrinaggi e poi vicario generale. Ora come vescovo ho di nuovo la possibilità di incontrare persone e sono nuovamente più vicino al mio desiderio professionale.
Però non è mai diventato quello che desiderava?
È così ma si potrebbe dire che è colpa mia perché non ho mai scelto qualche cosa di mia iniziativa ma sono sempre stato inviato nei posti o perlomeno sono stato contattato. Non ho mai saputo dire di no.
Quando si è reso conto che c’era abusi all’interno della chiesa cattolica?
In realtà molto presto perché nel mio paese nella generazione dei miei fratelli ci sono stati abusi da parte di un sacerdote. Personalmente non ne sono stato coinvolto perché poi quel sacerdote non c’era più.
Quando dice che si è reso conto molto presto, intende dire da giovane?
Sì, da giovane. E successe nella stessa modalità, che ci si presenta ancora oggi. Nascostamente, ma in qualche modo lo si sapeva. Nessuno ne parlava ma il tema era presente.
Parlava dei suoi fratelli, ne sono rimasti coinvolti?
Grazie a Dio, i miei fratelli no.
Come era possibile? Si sapeva ma non ne parlava nessuno…
Il sacerdote è stato allontanato dalla parrocchia in un’azione lampo e mai più è stato parroco. La gestione della parrocchia passò in mano al cappellano. Più tardi nel 1970 arrivò un parroco che rimase 37 anni, fu il suo primo posto da parroco e vi rimase fino alla fine. Questo parroco ha lasciato un’impronta profonda in me. Ma non ha affrontato mai il tema e non l’avrebbe mai fatto pubblicamente.
Quando si imbatté nuovamente in questo tema?
In seminario capii che questo problema non riguardava i singoli luoghi e le singole biografie ma la diocesi nella sua interezza. Lì ero naturalmente più vicino a certe situazioni. Una volta mi chiesero di celebrare la messa del mercoledì delle Ceneri perché proprio quel giorno si svolgeva il processo giudiziario per abusi contro il sacerdote di quella parrocchia. Era l’inizio degli anni Novanta e mi aveva toccato profondamente.
Nel periodo come rettore di seminario e vicario generale ha commesso errori nell’affrontare il tema degli abusi?
(Pausa) No, almeno non ne sono consapevole. Durante il mio periodo come vicario generale gli standard erano già formulati in modo chiaro e il vescovo Stephan Ackermann ha affrontato il tema molto seriamente e il vicario giudiziale ha lavorato in modo molto conforme al diritto. Per noi tutti era importante che si rispettassero gli standard che avevamo. Come rettore devo dire che lo Studio-MHG (studio abusi sessuali all’interno della chiesa cattolica tedesca, commissionato dal collegio episcopale tedesco nel 2014 agli istituti di ricerca di Mannheim, Heidelberg e Gießen, conclusosi nel 2018, ndt.) ha confermato che il numero reale dei sacerdoti pedofili è scarso. Nella formazione dei sacerdoti non ne ho incontrato nessuno. Ma naturalmente il tema dell’immaturità umana e sessuale era spesso argomento di discorso durante il periodo da rettore di seminario ed era sovente anche tema di discussione fra seminaristi. Molte volte era anche un argomento base per decidere se non ammettere qualcuno al servizio sacerdotale. Eppure ci sono stati casi di abuso nella diocesi di Trier anche da coloro che erano stati seminaristi da noi e sui quali io ovviamente mi domando ripensandoci, se abbiamo commesso errori. Non riesco a trovarne perché non ci sono stati per nulla segni che lasciassero intravedere l’abuso.
A partire dal 2002 (quando giornale americano “Boston Globe”, ha portato all’attenzione pubblica gli abusi nella diocesi di Boston, ndt.) tutti avrebbero potuto rendersi conto della gravità del tema (abusi sessuali nella chiesa, ndt.). Come è cambiato il suo modo di vedere nel corso del tempo?
Già all’inizio degli anni Novanta il problema era noto. Una volta la strategia consisteva nell’allontanare il colpevole, atteggiamento che ci è stato giustamente contestato nei processi di elaborazione. L’attenzione era riposta su di loro. Non si è guardato quasi per nulla alle vittime e alle loro ferite, ai loro bisogni. Questo è cambiato, e questo mi ha cambiato. Ho capito che si trattava di reati e che per questi reati c’è un diritto penale secolare e uno ecclesiastico.
Stiamo assistendo a come vengono giudicate le passate generazioni di vescovi, ultimamente a Colonia, Aquisgrana e Münster. Trova ingiusto come lì si siano valutate le generazioni precedenti?
Non si tratta di giudizi ma di una elaborazione che la realtà ci mette davanti. Dobbiamo esigerla da noi e dai predecessori in servizio. Se la realtà è tale che si possa dire obiettivamente: qui si è agito in maniera erronea, qui si è insabbiato, qui c’è stata in fondo solo la prospettiva del colpevole e il problema di come sistemare gli abusi compiuti, allora questo anche in passato era un approccio deficitario. Ora tutto questo viene espresso senza emettere giudizi nei singoli casi. Lo dobbiamo infine alle vittime che devono vivere con questo anche se i responsabili sono morti da tempo.
Quindi se qualcuno dopo il 2002 ha violato le direttive nell’ambito della sua responsabilità di gestione deve dimettersi?
Deve in ogni caso trarre le conseguenze di questo comportamento. Abbiamo adesso da quasi 20 anni le linee guida. Se viene provato che qualcuno ancora in servizio non ha agito conformemente alle linee guida, deve dare spiegazione di questo comportamento e trarne le conseguenze.
Quindi dimissioni?
Possono essere anche le dimissioni.
Abbastanza spesso viene attribuita la responsabilità ad altri o addirittura nessuno viene ritenuto responsabile. Di chi sono esattamente le responsabilità: del vescovo, del vicario generale o del referente del personale?
Il lavoro di elaborazione nella diocesi di Limburg ha mostrato che le responsabilità venivano spinte di qua e di là. Il vescovo non ne sapeva nulla perché il responsabile del personale agiva per contro proprio. Dobbiamo modificare la scarsa chiarezza nell’attribuzione di responsabilità. Deve essere chiaro chi e per che cosa è responsabile. Per questo abbiamo bisogno di una elaborazione indipendente per imparare a stabilire strutture di responsabilità trasparenti e i processi appropriati. Ovviamente alla fine è il vescovo responsabile per ciò che succede nella sua diocesi.
Lei viene considerato un riformatore. C’è nella sua biografia un punto di svolta dal quale non si deve tornare indietro ma addirittura andare avanti con maggiore tenacia?
Non c’è stato un preciso momento di svolta. Mi descriverei anzi come un conservatore perché amo questa chiesa e per lei do volentieri la mia vita e le mie forze. Ma voglio che cambi.
Se adesso dovesse discutere con il Georg Bätzing del giorno della sua consacrazione, litigherebbe sull’ordinazione delle donne?
No. Già allora era un tema di discussione. Nel 1984, come presidente del comitato studentesco dell’università, ho contribuito a organizzare un seminario indipendente sull’ufficio della chiesa.
Ci legava allora una stretta amicizia con gli studenti, che ambivano ad altre professioni nella pastorale. Erano gli anni in cui ci fu il blocco delle assunzioni per i referenti pastorali. Personalmente ero molto solidale con questi studenti e lo sono ancora. La questione era questa: gli uni erano corteggiati, desiderati e voluti nel ministero sacerdotale. Gli altri invece erano bloccati. L’ho sempre considerata una cosa ingiusta.
E il sacerdozio per le donne?
Allora come oggi per me è importante che gli argomenti della chiesa, sul perché il servizio sacramentale possa competere solo a uomini, siano onesti. Ma sinceramente noto che questi argomenti sono sempre meno convincenti e che nella teologia ci sono argomenti ben vagliati, che parlano a favore di un’apertura dell’ufficio sacramentale anche per le donne.
Per questo parlo spesso di diaconato per le donne perché lì vedo un margine di azione. Per quanto riguarda invece il servizio sacerdotale, i papi a partire da Giovanni Paolo II, hanno detto all’unisono che alla domanda è stata data una risposta. Tuttavia la questione è sul tavolo.
All’interno della chiesa c’è una certa frustrazione da una parte a causa della polarizzazione delle posizioni e dall’altra a causa di una paralisi per ciò che riguarda i cambiamenti, almeno alcuni la percepiscono così. Come pensa di affrontare la situazione?
La polarizzazione cresce nella chiesa ma anche nella società ed è molto pericoloso. Però non mi sembra che nel Cammino sinodale (Synodaler Weg) stia aumentando la frustrazione. Ci sono molti spunti. Ci troviamo in una finestra di tempo in cui possiamo veramente cambiare qualcosa, di questo ne sono convinto. Dobbiamo utilizzarla.
Concretamente a proposito della mancanza di preti: la situazione è drammatica a causa delle condizioni di ammissione, come l’obbligo di celibato; in alcune diocesi non ci sono più candidati. La tensione cresce sempre di più perché la struttura sacramentale della chiesa richiede i preti…
Sono convinto che anche oggigiorno ci siano vocazioni, ma queste vocazioni sono disorientate e rese insicure dalla situazione della chiesa. I conservatori dicono a volte che è colpa dei riformatori che vogliono cambiare tutto. È proprio l’esatto contrario: se perdiamo la presa sulla società, se noi come chiesa continuiamo a separarci dal contesto della società (exkulturieren), blocchiamo di fatto le vocazioni. È un dramma. A quanta sostanza rinunciamo e della quale invece abbiamo bisogno come forza per l’evangelizzazione, per tener fermo a condizioni di ammissione valide ancora oggi? È un problema che c’è da molto tempo.
A che punto è l’ecumene? Nel 2003 il teologo di Treviri Gotthold Hasenhüttl dopo una celebrazione ecumenica della cena durante la prima giornata ecumenica a Berlino subì un’azione disciplinare, adesso Lei con il gruppo di lavoro ecumenico (Ökumenischr Arbeitskreis,ÖAK) si è impegnato per un’ospitalità eucaristica nella prossima giornata dell’ecumenismo a Francoforte. Non è una contraddizione?
No, nient’affatto. Allora era tutt’altra situazione. Hasenhüttl fece un’intercelebrazione (celebrazione a cui partecipano ministri di confessioni diverse) e al vescovo di Treviri non rimase altro da fare. Allora come membro del Consiglio sacerdotale condivisi l’azione disciplinare, con tutte le reazioni che provocò. Una tale corsa in avanti, fatta in modo isolato è sempre dannosa. L’attuale documento dell’ÖAK (Ökumenischer Arbeitskreis) non è affatto così. È invece un saggio passo in avanti, supportato da validi argomenti. In esso non si parla di una celebrazione comune della cena, né di intercelebrazione, né di generale intercomunione. Si tratta semplicemente della questione se i cattolici che vanno alla santa cena o i protestanti che vanno alla celebrazione eucaristica abbiano buoni argomenti; la prassi esiste già da molto tempo.
Tuttavia il documento è molto criticato. Come si possono confutare le critiche?
È bene che ci siano delle critiche. Il gruppo di lavoro ecumenico (ÖAK) non pensava che il suo testo venisse accolto senza critiche. L’esito del lavoro dell’ÖAK è stato approvato con una votazione che è stata resa pubblica, cosa di per sé inusuale. Bisogna occuparsi delle critiche e anche rispondere ad esse per quanto sia possibile ed è ciò che sta succedendo ora. Noi come Conferenza episcopale reagiremo alle domande della Congregazione per la dottrina della fede e inseriremo le loro critiche nella valutazione del documento dell’ÖAK. Contemporaneamente l’ÖAK affronterà gli argomenti contrari e darà ancora una risposta. È giusto che la Congregazione per la dottrina della fede muova delle critiche. La mia critica alla critica è su un altro piano.
E cioè?
Innanzitutto era irritante che la lettera dei prefetti della Congregazione con le loro osservazioni giungesse pochi giorni prima dell’inizio dell’assemblea della Conferenza episcopale tedesca. L’esame del documento sull’ecumenismo era già stato avviato il 20 maggio dal cardinale Marc Ouellet. A fine giugno poi ero in visita inaugurale a Roma e avevo parlato con tre cardinali interessati. Nessuno di loro mi disse che era in corso un’esamina o che volessero parlare con me di questo. In secondo luogo la reazione critica della Congregazione mostra di apprezzare troppo poco lo sforzo ecumenico che c’è dietro al lavoro dell’ÖAK. Non si tratta di una chiacchierata ecumenica ma di un lavoro di esperte ed esperti che sono personalmente appassionatamente ecumenici. C’è qualcosa di cinico nel dire loro semplicemente: no, così non va bene, lavorateci ancora.
Poco prima di questo confronto c’era stato il conflitto con il cardinale Beniamino Stella sull’Istruzione della Congregazione per il clero circa la conversione della pastorale. Qual è la strategia della Conferenza episcopale di fronte all’antagonismo fra la chiesa in Germania e il Vaticano?
Il giugno scorso (Bätzing era in visita in Vaticano, ndt.) ho sentito le riserve verso noi tedeschi e il modo in cui noi affrontiamo le cose. Questo riguarda anche il Cammino sinodale. Cerco di capire e di intuire che a Roma sentono una grande pressione su come poter tenere assieme una chiesa universale di così diverse impostazioni culturali. Noi, da parte cattolica, non abbiamo ancora trovato una risposta adeguata. Ma la risposta non può essere quella di aspettare gli ultimi e, che fino ad allora, nessuno possa andare avanti, nessuno possa fare domande e cercare risposte adatte al contesto culturale al fine di evitare che il divario fra il Vangelo e le rispettive culture diventi sempre più ampio. Questo è il nostro problema. Le risposte devono poter essere decentrate, devono essere possibili spazi di manovra. Dobbiamo fare più inculturazione (processo di socializzazione che implica adattamento e dialogo, ndt.) dovunque questa non intacchi i depositum fidei (il deposito della fede, il patrimonio di tutte le verità insegnate da Gesù, ndt.)
Problemi di comprensione ci sono fino ai vertici. Come ha percepito le recenti esternazioni del papa nelle quali considera genericamente i “cammini sinodali” in modo scettico?
Non vogliamo soffermarci su ogni affermazione di ciascuna udienza. Ci sono chiare dichiarazioni alle quali ci atteniamo. Il Santo padre ci aveva scritto una lettera all’inizio del Cammino sinodale nella quale ci incoraggiava ad affrontare le questioni attuali. Questioni che non abbiamo scelto noi ma che sono il risultato di ampie ricerche sulle cause sistemiche dell’abuso sessuale.
E sono questioni che sono sul tavolo da decenni senza risposta. Si tratta dell’evangelizzazione ma proprio per questo, ce l’ha assegnato il papa, devono essere dissipati gli impedimenti, che intralciano l’evangelizzazione.
Ma nella lettera del papa c’è dell’altro…
Certamente e queste parole mi rafforzano. Lui ha detto di guardare oltre i confini della chiesa tedesca. Il sensus ecclesiae (il senso della chiesa) è molto importante e non conosco nessuno nel Cammino sinodale per il quale non lo sia. Più avanti nella lettera, Francesco dice che dovremmo percorrere un cammino spirituale. Anche questo è per me molto importante e ho la sensazione che lo facciamo in modo evidente. Non sono invece d’accordo con le delimitazioni quando il cammino spirituale viene distinto da uno democratico. Una cosa non esclude l’altra. Non c’è stato alcun Concilio nel quale non si sia lottato, disputato e votato. Se tutto ciò viene contrassegnato come democrazia, allora ne voglio di più nella chiesa. Spirituale significa anche voler comprendere l’opinione degli altri e non emarginarci.
Il papa parla anche riferendosi alla questione dei viri probati e che questo cammino spirituale non è ancora sufficientemente percorso. Che cosa intende?
Parla sempre del motivo gesuita del discernimento degli spiriti e che ne serve di più. Tuttavia ho una domanda in proposito. Quale istanza decide se questo processo è giunto a maturazione o meno? Prima o poi bisogna decidere.
Alla fine però l’istanza è il papa?
Non lo è in tutte le questioni. Il papa è deputato a decidere solo in questioni di fede ben definite. I vescovi e il sinodo dei vescovi sono una parte della guida della chiesa universale – cum petro et sub petro.
C’è poi l’ipoteca del Cammino sinodale. In questo processo c’è bisogno di decisioni e non solo di portare a termine un processo dialogico…
Nello statuto del Cammino sinodale c’è il concetto di delibera. Questo è l’obiettivo. Qui ci sono tre livelli. Il primo riguarda ciò che può essere modificabile consensualmente in Germania. Il secondo riguarda punti che possono essere possibili attraverso modifiche del diritto canonico ma che non riguardano ancora il piano della chiesa universale. Al terzo livello ci sono grandi temi in questione come l’apertura dell’ufficio sacramentale alle donne a cui non potremo dare una risposta qui in Germania e che possiamo trattare nell’ambito della chiesa universale.
Si auspicherebbe dal Cammino sinodale una delibera sulla possibilità delle donne di predicare nella celebrazione eucaristica?
L’attuale posizione legale nella chiesa prevede che l‘annuncio e la guida della celebrazione eucaristica spettino a una sola persona. La mia opinione personale è che ci dovrebbe essere maggiore margine di azione di quanto abbiamo finora. Desidero avere più partecipazione di donne e generalmente più laici nell’annuncio della celebrazione eucaristica perché la testimonianza di tutti i cristiani arricchisce, anche noi sacerdoti.
La benedizione delle coppie omosessuali sarebbe una decisione che si potrebbe prendere indipendentemente da Roma?
Nella mia diocesi ho dato il compito di studiare la questione. Per me è di più ampia portata e riguarda come comportarci in generale con le coppie che non sono sposate in chiesa ma che supplicano la benedizione di Dio? È una realtà ecclesiale e abbiamo bisogno di soluzioni che non rimangano nell’ambito privato ma che abbiano una visibilità pubblica; però occorre anche mettere in chiaro che non si tratta di matrimonio.
Si può fare senza Roma?
Penso che qui si debbano trovare forme possibili nella liturgia che non richiedano l’approvazione del Vaticano. Tuttavia, e parlo per me, ritengo che dopo intensi confronti a riguardo abbiamo bisogno di modificare il catechismo.
Non c’è bisogno infine di un altro concilio?
Nel Cammino sinodale toccheremo anche questioni così fondamentali che avranno bisogno di essere chiarite attraverso un concilio. Sono molto interessato al sinodo universale dei vescovi sulla sinodalità. Si deve poter chiedere quando può essere possibile la prospettiva di un concilio.
La crisi del corona rafforza la tendenza alla secolarizzazione, è stato detto più volte. Come può opporsi la conferenza episcopale tedesca a questa tendenza? Come può svilupparsi una nuova dinamica?
Nessuno può opporsi a un trend di così grande portata come la secolarizzazione del mondo occidentale. Con tutta la buona volontà non fermeremo la tendenza nella nostra società ad avere un legame con la chiesa sempre più blando e neanche fermeremo le spinte di secolarità. Possiamo solo fare meglio quello che è il nostro compito: testimoniare e annunciare fortemente il Vangelo.
Ci sono percezioni molto differenti: l’intellettuale francese Michel Houellebecq ha scoperto un interesse verso l’essere cattolico. Il sociologo tedesco Heinz Bude rivendica che la chiesa debba trasportare meglio nella società il suo messaggio di salvezza. La chiesa invece si lamenta molto. Manca un po’ di ottimismo?
Bene, lei ha chiesto della crisi e ho risposto a quello. E sarebbe fatale, nonostante tutti gli altri segnali negare la crisi. C’è ora questa grande trasformazione da una chiesa popolare sostenuta dal contesto sociale a una chiesa della decisione. E desidero questa chiesa nella quale tutti cresciamo. Ancora una volta: non ci può e non ci deve essere nessun ritorno indietro. Questo è anche un insegnamento che traiamo dalla crisi sugli abusi, che un’istituzione di chiesa popolare, ha troppo badato a se stessa e troppo poco alle vittime. Noi riconquisteremo la nostra credibilità, credibilità anche per i rinnovamenti, se pensiamo il nostro essere cristiani in modo meno istituzionale. Questo presuppone che la secolarità non è un nostro nemico. La società secolare è il nostro teatro di azione per invitare le persone a un legame con Dio e con la religione, non è un territorio nemico.
Se noi venissimo da un altro mondo e Lei volesse presentarci la chiesa cattolica in Germania dove ci porterebbe?
Innanzitutto vi porterei in un ospizio. Lì si mostra la nostra limitatezza, la finitezza della nostra vita e quindi che anche la morte appartiene alla vita e come si possa morire bene. Per me questa è una parte importante della chiesa. Andrei poi con voi a una giornata mondiale della gioventù. È stata una geniale invenzione di papa Giovanni Paolo II. Le persone non vengono socializzate automaticamente in modo cattolico nella famiglia, ma è compito nostro, offrire eventi ed esperienze interessanti, che rendano possibile conoscere il cattolicesimo.
Le piacerebbe un evento così in Germania?
Sono ormai passati 15 anni da quando c’è stata l’ultima giornata mondiale della gioventù in Germania. Personalmente mi impegnerei ad ospitare qui una giornata mondiale della gioventù. E inoltre mi farebbe molto piacere se papa Francesco venisse a farci visita in Germania.
(Traduzione a cura di Paola Colombo)