Alla Missione di Mainz tutti conoscono Laura Mosconi. Generazioni di connazionali hanno fatto catechismo con lei, è stata la loro insegnante, hanno condiviso con lei momenti di gioia e di difficoltà, si sono rivolti a lei per un passaporto o per sbrigare una pratica. Ancora oggi, a 89 nove anni, Laura Mosconi, di professione assistente sociale, svolge un prezioso lavoro di volontariato presso la missione dove è arrivata negli anni ‘70. Lo scorso novembre Laura Mosconi ha compiuto 75 anni di attività lavorativa e in quell’occasione l’abbiamo intervistata. È una donna attiva, che ha saputo tenere il passo coi tempi, che ha saputo ascoltarli. La sua biografia è un pezzo di storia dell’Italia del dopoguerra che ricostruisce la società ma anche un pezzo di storia dell’emigrazione italiana in Germania.
Paola Colombo
Da Stoccarda a Magonza
Laura, come è arrivata in Germania?
C’era un sacerdote del mio paese, Alzano Lombardo, vicino a Bergamo, che era assistente ecclesiastico delle Acli che chiese a me e ad altre tre ragazze se fossimo interessate a un lavoro in Germania nella migrazione. Al primo momento rimasi un po’ titubante perché sentendo Germania avevo di fronte le immagini dell’occupazione tedesca del ’45 nel mio paese. Avrei preferito un’altra nazione, ma poi sono venuta e la prima esperienza è stata al centro italiano di Stoccarda. Era un punto di riferimento, insieme alla Missione, dove si riunivano gli uomini soprattutto il sabato e la domenica. Era all’inizio della migrazione, c’erano pochissime donne, erano quasi tutti uomini soli. Arrivavano a Stoccarda, molti poi proseguivano per Francoforte e Colonia. A Stoccarda ho imparato la geografia perché per me dopo Roma era Meridione. “Quello è un calabrese?”. “Quello è un pugliese”. “Quello è un siciliano”. E io “scusate, mi spiegate bene, non capisco che cosa vuol dire. Non son tutti del Meridione?”. Fra loro litigavano, ma noi, ci hanno sempre rispettato.
Quindi avevano dei codici all’interno dei loro gruppi ma nei vostri confronti non hanno mai creato problemi.
No, una volta sola. Hanno appiccato il fuoco al Centro alle tre di notte. Si finiva verso le 11 e mezza ma poi dovevamo mettere a posto, lavare i piatti, si finiva alle tre di notte. Stavamo per andare a letto quando ci hanno chiamato perché qualcuno aveva appiccato il fuoco giù.
Siamo state un anno al centro di Stoccarda, è stata un’esperienza molto bella sulla quale ho fatto la tesi per diventare assistente sociale ma il lavoro era eccessivo e non ci davano aiuto. Siamo andate allora a Stommeln vicino a Colonia dove si era aperto un collegio per bambini italiani figli di emigrati italiani. A Stommeln, e lì altro che tesi, si passavano mezze giornate a pelare patate: erano una trentina di bambini e noi eravamo quattro ragazze. C’erano l’insegnante di italiano e di tedesco, perché i bambini erano appena venuti dall’Italia. Si fermavano dal lunedì al venerdì qualcuno si fermava anche il fine settimana, dipendeva se la famiglia poteva venire a prenderli o meno. Ci sono stata dal ‘65 al ‘68 poi il collegio è stato chiuso per un anno. Intanto io ero rientrata in Italia dove sono rimasta fino al ’71-’72 a lavorare in due parrocchie italiane.
Poi stava preparando le valigie per Roma invece prese il treno per la Svizzera…
Due giorni prima di partire per Roma mi telefonarono, chiedendomi se volevo andare in Svizzera. Rifeci la valigia per la Svizzera e andai nella Svizzera francese a La Chaux de Feunds, vicino a Neu-Châtel, dove rimasi un anno a lavorare nell’emigrazione. Un’emigrazione completamente diversa da quella che ho trovato in Germania perché gli italiani in Svizzera si comportavano come gli svizzeri: puntuali, precisi, osservanti. Erano perfino più inquadrati che nelle parrocchie in Italia. Avevo per esempio, avevo 80 ottanta ragazzi al catechismo, 78 venivano alla Messa alla domenica coi genitori, cose mai viste neanche in Italia.
Ma la Svizzera è stata una breve tappa, si può dire una tappa di avvicinamento alla Germania.
Dalla Svizzera sono venuta via perché non mi avevano assunto come assistente sociale. Feci ricorso in tribunale, vinsi la causa però mi dissero che sarebbe stato meglio se avessi cambiato cantone. “Io cambio nazione, non cambio cantone” risposi. Un’amica a Francoforte mi disse che si stava aprendo la Missione di Bad Homburg e che c’era un posto libero. Così andai a Bad Homburg dove rimasi solo un anno perché ero assunta a mezzo tempo. Poi da Mainz mi hanno chiesto se volevo venire e sono venuta nel ’76 e mi sono fermata qui.
Da allora ha sempre lavorato nella Missione di Mainz. Che tipo di attività ha svolto?
Quando sono arrivata a Mainz sono stata assunta come segretaria perché qui se ti dicono che hai quella categoria, non ci sono santi che tengono. Poi c’erano quattro suore per cui era difficile fare la catechista. Però con il missionario ero rimasta d’accordo che mi sarei impegnata anche nella pastorale. Facevo la segretaria poi avevamo le scuole medie serali per adulti. Che cosa insegnavo?
… non può che essere l’odiata matematica!
Sì, insegnavo matematica (ndr. Laura Mosconi ride). Ho imparato matematica, insegnandola. A cinquant’anni ho preso il diploma magistrale perché volevo avere la didattica per insegnare. Sono diventata anche corrispondente consolare. A 60 anni sono andata in pensione e siccome non riuscivano a trovare un’altra segretaria sono rimasta fino a 65 anni.
Dalla fabbrica agli studi di assistente sociale
Da allora, Laura Mosconi, è in pensione, ma svolge sempre attività di volontariato in Missione. Ma torniamo agli inizi.
Vengo dal Alzano Lombardo, un paesino a sette chilometri da Bergamo, tristemente famoso quest’anno per la pandemia, vengo da una famiglia operaia, numerosa, sono la settima, ho sei fratelli prima di me e sei dopo. Ringrazio il Signore perché per me la famiglia numerosa è una scuola di vita, si impara a condividere, a conoscersi, ad apprezzare le differenze… In tempo di guerra si è sofferto la fame. Mio padre è morto in una settimana di polmonite quando avevo quattordici anni e in casa c’era bisogno di soldi. Avrebbero assunto mia mamma nella fabbrica del paese, una cartiera, abbastanza grande con mille operai che praticamente dava lavoro un po’ a tutta la zona, però mia mamma, vedova da poco, era incinta del tredicesimo e allora disse a me “Vai tu in fabbrica”. Si faceva dalle otto a mezzogiorno e dalle due alle sei. Il primo giorno di lavoro, tornata a casa per il pranzo, avevamo una cucina molto grande con un camino grande dove ci si poteva sedere dentro, mi ci sono infilata e non volevo più uscire. Mia mamma: “Vai” e io “No, non ci vado”. Non arrivavo neanche al tavolo a lavorare mi hanno dovuto mettere sotto uno sgabello e mia mamma “vedrai ci stai poco”. Ci sono stata sedici anni. È stata un‘esperienza molto positiva. I primi mesi ho lavorato come operaia e nel reparto campioni. Dovevo controllare se i fogli di carta avessero macchie, imperfezioni. Dopo tre mesi sono andata al centralino archivio, per questo odio il telefono. Ho poi lavorato in ufficio, avevo un lavoro di una certa responsabilità. Anche lì sono stata fortunata perché avendo bisogno di soldi in casa, facevo il mio lavoro e poi negli altri uffici facevo degli straordinari per cui avevo un po’ chiaro tutto l’andamento della cartiera: andavo un po’ all’ufficio vendite, all’ufficio acquisti, all’ufficio paghe e contabilità, all’ufficio personale.
Il lavoro come necessità. Con la sua intraprendenza e il suo impegno sembrava avviata a una carriera nel mondo dell’industria. Ma da giovane donna quali erano i suoi sogni, i suoi progetti?
A un certo punto mi son stufata della fabbrica. Ero impegnata in paese nelle Acli, nella San Vincenzo, nell’oratorio, ero amante della montagna. Mia mamma mi diceva sempre “Ti ho trovato su un carrozzone di zingari” perché ero sempre fuori casa. A un certo punto leggendo Cani perduti senza collare di Gilbert Cesbron (scrittore e filosofo francese) che parlava di carcere minorile mi son detta “voglio fare l’assistente sociale”. Avevo fatto le elementari e l’avviamento, ma per diventare assistente sociale avevo bisogno di un diploma. Avrei voluto fare le magistrali ma non c’erano, c’era geometra e ragioneria. Ho scelto ragioneria anche se ho sempre odiato i numeri.
Lavoravo otto ore in ufficio, uscivo alle sei, alle sei e mezza prendevo il tram, andavo a Bergamo. Alle dieci finiva la scuola, arrivavo a casa alle undici e studiavo fino alle due, alle tre del mattino, però l’ho fatta in quattro anni anziché in cinque, ho fatto la seconda e la terza insieme.
Finalmente aveva il diploma e poteva frequentare i corsi a Milano per diventare assistente sociale. La qualifica di assistente sociale non era parificata a una laurea, la preparazione durava quattro anni e si chiudeva con una tesi. Come si poteva conciliare questo con il lavoro nella cartiera?
Avevo bisogno del permesso per poter frequentare i corsi due volte alla settimana. Avrei chiesto un giorno di permesso perché avrei lavorato il sabato. Nel mio ufficio non era necessaria la mia presenza dovevo solo preparare il materiale per la fabbrica. Il padrone mi avrebbe pagato gli studi di economia e commercio. “Ma guardi che io economia e commercio non la voglio fare”. “Poi apriamo un centro meccanografico e lo affidiamo a lei” tentava di convincermi. “Qui non è la San Vincenzo” concluse. “Bene, io da domani sono libera, mi licenzio”. Mi sono licenziata. Fortunatamente a Milano avevo una zia che mi ha preso in casa e ho cominciato a fare gli studi di assistente sociale alla Unsas di Milano, studi validissimi con 32-33 esami, molta teoria ma anche molta pratica. Alla mattina lavoravo in un ufficio quattro ore con un “pazzo” che però mi ha mandato da un commercialista. Il quale mi avrebbe assunta volentieri.
Un’altra persona che voleva metterla in ufficio a tenere di conto…
Dopo il lavoro andavo a scuola per quattro ore, poi un’ora in tram per andare in un centro alla periferia di Milano a fare pratica. Mi è toccato un centro sociale in uno dei quartieri che sorgevano con i problemi legati al quartiere, la scuola eccetera, non è che mi attirasse molto però. Insomma arrivavo a casa a mezzanotte. Le materie di studio erano interessanti: lavoro di gruppo, lavoro individuale, lavoro in società, economia, diritto, civile, penale. C’erano anche molte discussioni, cioè colloqui con la gente, con le istituzioni. Ci facevano visitare gli istituti dove c’erano le ragazzine abusate dai genitori o parenti o ci mandavano alla stazione, tre o quattro, tutte in punti diversi e poi dovevamo dire quello che avevamo rilevato, l’impressione che ci avevano dato le persone. Finita la scuola mi hanno chiamato in Germania. Infatti la tesi l’ho fatta, come dicevo, nel centro di Stoccarda sui problemi culturali della prima immigrazione.
La passione per i viaggi, la curiosità di conoscere le persone
La sua forza è trarre il meglio dalla situazione in cui si trova e la preparazione.
Mi piace leggere e viaggiare. Ho girato quasi tutto il mondo. Una volta all’anno facevo dieci giorni a casa di mia sorella, vedevo tutti i miei parenti eccetera, ma il resto delle ferie facevo un viaggio: Congo, Brasile, Marocco, Islanda, India, Giappone, Cina, Messico. Mi piaceva andare in mezzo alla gente, vedere come vivono. Per esempio, io che sono del nord (Italia), quando sono venuta qua i meridionali non li capivo, erano fuori dal mio mondo. Quindi per tre anni ho girato con la macchina insieme ad altre due ragazze. Io non guidavo avevo la patente ma sono un pericolo pubblico. Abbiamo fatto la Calabria, la Puglia, la Sicilia. Andavamo con la macchina nei paesini, stavamo in campeggio. Era importante renderci conto di come vivevano, le loro tradizioni, le loro feste, usanze, il loro modo di fare… Era sempre un andare incontro alle persone, un capirle. Prima di dire quella persona la pensa così devo capire perché quella persona la pensa così.