Donne e ministero ordinato. Quali impedimenti? Parliamone – Intervista al teologo Andrea Grillo

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Donne e Chiesa. Intervista al teologo Andrea Grillo

Il Sinodo dei vescovi a Roma ha riflettuto anche su donne e ministeri nella Chiesa. Di diaconato per le donne se ne parla ormai da anni. Di sacerdozio femminile alcune Chiese locali chiedono di poterne parlare. Noi lo facciamo con il teologo Andrea Grillo argomentando di impedimenti. L’intervista toccherà anche il tema dell’autorità della Chiesa di cambiare, di che cosa vuol dire fedeltà al Vangelo, del rapporto fra Tradizione della Chiesa e di riforma del Codice di diritto canonico.


Andrea Grillo (Savona, 1961) è professore ordinario di Teologia sacramentaria e Filosofia della religione del pontificio ateneo Sant’Anselmo di Roma e insegna liturgia fondamentale all’Istituto di Liturgia pastorale (Padova). Tra le numerose pubblicazioni: Eucaristia (Queriniana, 2019), Cattolicesimo e (omo)sessualità Sapienza teologica e benedizione rituale (Scholé 2022). Riti che educano, i sette sacramenti (Cittadella, 2015)

 

  • di Paola Colombo

Perché la questione delle donne nella Chiesa e per la Chiesa è fondamentale?

Ha a che fare con il modo di porsi della Chiesa in rapporto alla realtà. Mi spiego, la questione delle donne nella Chiesa è fondamentale perché va a toccare uno dei due assetti su cui la Chiesa si è costruita per 1.800 anni e cioè l’assetto basato sulle differenze, per cui la differenza fondamentale è quella fra Dio e l’uomo (piano teologico). Questa differenza sul piano civile diventa quella tra chierici e laici e infine tra uomini e donne sul piano naturale. Le tre cose sono state vissute come interscambiabili, ovvero si difende la differenza fra Dio e l’uomo se si difende la società fatta di chierici e laici, dove gli uomini fanno delle cose e le donne delle altre. Questa è un’evidenza che attraversa tutta la storia fino al Moderno. L’impatto con il mondo moderno mette in gioco la differenza di Dio, la differenza dei chierici e la differenza dei maschi. Il rischio è di pensare che ci sia Vangelo, fede e chiesa solo se si tiene la società della differenza. Non tutta la Chiesa ha pensato così ma larga parte del magistero per molti decenni ha ceduto alla tentazione di pensare che era possibile difendere la Chiesa solo difendendo il principio della societas inaequalis di cui parla tutto l’’800 e che è ancora presente nelle parole di Pio X all’inizio del Novecento e che per ultimo viene rievocata da Pio XII. Il Concilio Vaticano II cambia registro, permangono resistenze, non così aperte sul piano chierici laici, mentre sul piano della differenza maschile/femminile si ripete ancora che fa parte della divina costituzione della Chiesa che le donne non ricevano il ministero sacerdotale. Se ne fa diventare una questione di essenza della Chiesa, senza più spiegare perché, secondo una logica di autorità senza teologia, limitandosi a dire che così ha voluto Gesù.

Queste sono forme di spiegazione tra l’integralismo e il fondamentalismo che lasciano di stucco prima di tutto gli esegeti, perché quello che Gesù fa nella scelta degli apostoli è molto problematico se viene letto come univoco (letterale): i Dodici apostoli sono uomini maschi, maschi circoncisi e circoncisi galilei. La questione è dove ci si ferma nelle differenze importanti? Fin dalla prima generazione delle comunità cristiane si è capito che essere galilei non era normativo. Sul fatto che fossero circoncisi si è discusso un po’ di più, ma che siano solo maschi non è stato oggetto di domanda fino a che la società non è cambiata. Nel momento in cui si è scoperto che le donne possono avere tanta autorità quanto gli uomini, fuori dalla Chiesa e anche nella Chiesa, affrontare il problema significa affrontare il rapporto con la realtà.

Copertina del libro di Andrea Grillo, edito da Cittadella Editrice

Autorità delle donne nello spazio pubblico e come si rapporta la Chiesa con la realtà, sono due importanti coordinate per la questione donne e ministero ordinato. Nel suo libro Se il sesso femminile impedisca di ricevere l’ordine, Lei pone la questione in questi termini: possiamo escludere le donne dal ministero? Così facendo Lei opera un rovesciamento della domanda che finora è stata: perché le donne debbano essere incluse nell’ordine. Questo rovesciamento, sostiene, non è altro che una domanda secondo tradizione. Può spiegare questo passaggio?

Il passaggio è doppio. Il primo è scoprire che già nel Medioevo giuristi, anche se in modo minoritario, tendono a dire che il sacerdozio maschile fa parte della sostanza del sacramento dell’ordine. Secondo passaggio: la grande tradizione che comincia nel 1200 e che finisce nel secolo scorso, pone la questione sugli impedimenti all’ordinazione. E fa un elenco di impedimenti giuridici che purtroppo comincia sempre dal sesso femminile e comprende, l’essere schiavi, l’essere condannati per omicidio, l’essere disabili e figli naturali. Questi impedimenti si basano sul criterio della padronanza di sé o della “capacità”.

Ora, lungo la tradizione è del tutto comprensibile che alcuni di questi impedimenti rimangano. Ma il fatto che il sesso femminile sia motivo di impedimento è legato a un giudizio che si dà sulla donna di carattere antropologico, biologico, di carattere creaturale e gli antichi allegavano questi motivi alla giustificazione dell’impedimento. Oggi nessuno di questi motivi sta più in piedi, per cui la strategia che si utilizza a partire dai primi del Novecento è di dire che fa parte della sostanza del sacramento dell’ordine il sesso maschile. Ma questo è un modo di nascondere la questione, che invece bisogna affrontare in modo più classico e rispondere alla domanda: ”quali sono gli impedimenti all’ordinazione?” e provare a giustificare perché il sesso femminile potrebbe essere un impedimento. Non essendoci più ragioni per considerarlo un impedimento è una condizione che rende possibile l’ordinazione. Quindi il fatto che ci sia una distinzione, maschi e femmine, tra i criteri di accesso al ministero ordinato, è un frutto dell’antropologia, di una sociologia che è superata da due secoli e che formalmente Giovanni XXIII in Pacem in terris (1963) ritiene superata, quando dice che uno dei segni dei tempi è l’entrata della donna nella vita pubblica. Questa analisi che Giovanni XXIII fa chiaramente su un piano generale vale, come dice con molta finezza, per una parte della terra. Certo, con tutte le distinzioni anche oggi, per gran parte del mondo il sesso femminile è associato all’autorità e non più dissociato all’autorità. Questo crea nella Chiesa lo spazio per riconoscere anche il soggetto femminile come soggetto di ordinazione.

Ma come la mettiamo allora con la lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis (1994) nella quale Giovanni Paolo II aveva liquidato la questione del sacerdozio femminile come definitivamente chiusa per mancanza di potere della Chiesa?

Ordinatio Sacerdotalis lavora su due livelli. Il primo livello si basa su quanto già detto in Inter Insigniores (1976) e in Mulieris Dignitatem (1988) dicendo che è un dato acquisito della tradizione. Sicuramente è in larghissima parte un dato acquisito della tradizione, con qualche eccezione per il mondo antico, dove appunto ci sono riti di ordinazione, si parla di donne ordinate, quindi non è vero che non c’è mai stato. Viene meno questa logica per cui il Papa sembra constatare in tutta la storia dall’anno 0 al 1994 che sempre, da tutti e ovunque sia stato chiaro che le donne non devono essere ordinate. Questo è stato chiaro nel passato ma il problema è che non è più chiaro oggi. Con l’avvento della società tardo moderna non è più un’evidenza il fatto che le donne debbano essere escluse dall’ordinazione sacerdotale. Secondo fatto: quella di Ordinatio sacerdotalis è un’assunzione di autorità importante, ma non è massima, né incontestabile e ha reso necessarie interpretazioni perché il documento non era chiaro. Si è costruito questo ragionamento: il documento in sé non è infallibile ma attesta una prassi infallibile della Chiesa. Ma fra la prassi, che non è infallibile assolutamente, in quanto non assolutamente uniforme ovunque, e il documento non infallibile, esiste lo spazio per un dibattito che consideri quel giudizio, un giudizio contestuato e contingente dal punto di vista storico. L’Ordinatio sacerdotalis attendeva una spiegazione teologica a posteriori che trent’anni dopo non c’è stata e che quindi rende possibile, in generale, e io dico necessaria una revisione.

Si opera forse una sintesi eccessiva dicendo che in realtà non esiste nessun argomento teologico che possa sostenere l’esclusione delle donne dal ministero ordinato?

Diciamo che non si esagera anche perché se fosse esistito nel ’94 già lo avrebbero usato. Chi prova a usarlo è Paolo VI, o meglio la Congregazione della dottrina della fede dell’epoca, usando l’argomento della somiglianza sulla base di un testo di san Tommaso che dice: “deve esserci somiglianza tra il Signore e il ministro che lo rappresenta”. San Tommaso non si riferisce alla conformazione sessuale, ma parla della libertà, cioè della padronanza di sé, in riferimento allo schiavo. Il ragionamento è che lo schiavo non può essere ministro di Dio perché non ha la rassomiglianza con l’autorità del Signore. La donna, per Tommaso, è per natura non padrona di sé e quindi inferiore allo schiavo, che può essere emancipato, mentre la donna non si può emancipare dalla propria condizione. Tommaso considerava l’essere donna un impedimento per l’ordinazione a causa della comprensione della donna incapace di esercitare l’autorità. Questo non è altro che il pregiudizio di Aristotele: san Tommaso pensa ad Aristotele quando dice che ogni donna è un uomo mancato, ed è chiaro che con questo ragionamento una donna non può fare il prete o il diacono o il vescovo perché chi ha accesso all’ordine deve avere padronanza di sé, quindi essere un uomo maschio, di sana e robusta costituzione, che non abbia ucciso nessuno, che sia nato da un padre e una madre certi, che non sia disabile e che non sia minore.

Alla radice dell’esclusione delle donne dal ministero ordinato c’è la visione antropologica dell’inferiorità della donna, oggi superata; tuttavia ci sono anche alla base resistenze, quando si dice che non siamo pronti. Che fare allora?

La prudenza pastorale vuole che tutte le novità non entrino come un camion lanciato al 300 all’ora dentro la comune esperienza, per cui penso che sia ragionevole arrivare gradualmente a una rinuncia alla riserva maschile. Di fatto questa gradualità è già cominciata perché la riserva maschile è caduta su accolitato e lettorato, che è una cosa da poco ma corrisponde al vecchio cursus honorum (il percorso sequenziale) per entrare nel sacerdozio. Su accolitato e lettorato Paolo VI diceva che per venerabile tradizione si riserva ai maschi, Francesco dice che è tradizione “venerabile e non veneranda” ossia si può venerare ma non è necessario farlo e quindi noi possiamo farne a meno. Francesco utilizza un argomento di evidenza, in cui non ha bisogno di giustificare che per il ministero istituito di lettorato, accolitato e catechista cade la riserva maschile ed è aperto a tutti i battezzati, maschi e femmine che siano. Ciò ha un alto valore simbolico.

Credo che questo ci debba portare, gradualmente, magari passando inizialmente per l’apertura al diaconato, a togliere la riserva maschile. I medievali dicevano la salvezza è riservata a tutti, maschi e femmine, ma solo i maschi esercitano il ministero; credo che si possa arrivare a dire che la salvezza è destinata a tutti, e che, alle dovute condizioni di competenza, di vocazione che valgono per i maschi e per le femmine, ci possa essere una vera vocazione universale al ministero. Credo sia normale arrivare lì, superare le comprensibili forme di resistenza di una Chiesa che ha vissuto in una società in cui alcuni luoghi autorevoli sono stati fino a poco tempo fa chiusi alle donne. A volte noi dimentichiamo che la riserva maschile valeva fino al 1997 per la Filarmonica di Vienna, per la Filarmonica di Berlino, quindi un po’ di memoria storica ci aiuta.

Cambiamento nella Chiesa, aderenza alla tradizione e autorità della Chiesa, ovvero il potere della Chiesa di compiere riforme. Questi tre aspetti non sono in contraddizione fra loro? Come funziona questa dinamica circolare?

La dinamica è questa: la Chiesa non ha potere sul depositum fidei, può solo custodirlo, il che vuol dire che lo propone e lo interpreta. Nel proporlo e interpretarlo la Chiesa esercita un’autorità che nessuno le può negare, nemmeno un papa o un vescovo. Facciamo un esempio: Gesù ordina, chiama i Dodici e chiama galilei, circoncisi, maschi, uomini. Da un certo punto di vista, come avevamo già detto prima, per molti secoli abbiamo ritenuto che a galilei e circoncisi si potesse fare eccezione, ma che dovessimo essere fedeli a Gesù, nel chiamare solo uomini, maschi. Quando a un certo punto si capisce, per vie che non sono immediatamente ecclesiali, ma sono vie civili, vie artistiche, vie legate al mondo del lavoro, dell’arte, che le donne possono stare in pubblico esattamente come gli uomini, la riflessione ecclesiale può percepire la fedeltà al Signore come capacità di superare la riserva maschile e può dire che la riserva maschile non è fedeltà al Signore. La fedeltà al Signore è chiamare uomini e donne, perché come siamo stati fedeli al Signore chiamando non galilei e circoncisi, così diventiamo fedeli al Signore non solo ordinando maschi ma anche femmine. Qualcuno mi ha fatto l’obiezione dicendo che questo argomento svuota (la tradizione) e che allora si potranno ordinare anche animali. Quest’obiezione regge solo se si potrà dimostrare che gli animali sono uomini, ma è un argomento che si può escludere con sicurezza. È talmente forte la paura di superare la riserva maschile che si teme di brutalizzare la tradizione nel superarla, mentre significa scoprire la verità della tradizione.

Cito una scena del film storico Lincoln di Steven Spielberg nella quale si deve decidere se votare l’emendamento alla Costituzione e rendere anche i neri, schiavi, uguali ai bianchi davanti alla legge. Un pastore protestante interviene dicendo: “Oggi in quest’aula l’uomo con la sua arroganza violerà la legge di Dio che ha fatto i bianchi e neri diversi. Ma non ci fermeremo qui perché verrà un giorno che in questa aula entreranno delle donne e noi violeremo la legge che ha fatto gli uomini e le donne diversi e loro vorranno votare e noi daremo loro il diritto di voto”. Questo è nella fiction un modo efficace di mostrare come spostare su Dio la responsabilità è un movimento che facciamo anche oggi e che ha fatto anche la lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis dove dice che la Chiesa non ha il potere di ordinare donne perché così ha voluto il Signore. Allora, elaborare un modo di pensare che dà alla Chiesa l’autorità di cambiare è l’unico modo per restare fedeli al Signore, mentre non cambiare, ostinarsi a negare, è tradire la volontà del Signore. Anche qui uno sguardo al passato ci aiuta. Pensiamo che cosa è stato in passato accettare che la terra non è al centro universo ma che gira come uno dei tanti satelliti intorno al sole, sembrava sovvertire l’ordine del mondo, andare contro Dio, invece è soltanto rendersi conto che l’universo è più complesso di come pensavi. E questo vale anche per le logiche sociali.

Vorrei toccare il rapporto fra teologia e Codice di diritto canonico. Un codice senza testa e una teologia senza gambe, ha scritto mostrando la discrepanza fra un diritto canonico inadeguato agli sviluppi del pensiero teologico (dell’ultimo secolo). Può essere anche questo un impedimento alle riforme e al cambiamento?

Certamente. D’altra parte non bisogna dimenticare che il diritto canonico nella storia della Chiesa è stato un protagonista di grandi riforme e ha introdotto elementi di grande novità, per esempio i canonisti hanno elaborato il primato del “foro interno”, cioè il primato del soggetto maschile e femminile nella storia del matrimonio, contro le famiglie e contro i potenti, dove il parroco e il vescovo potevano ascoltare i soggetti e questo nessuno lo aveva detto prima del 1200. Il problema è che il diritto canonico è stato ridotto a codice, è diventato ordinamento giuridico che si impone come se fosse un testo biblico. Spesso la prima cosa che fanno vescovi, a volte anche i teologi, è guardare che cosa dice il codice. Per esempio il codice dice che possono essere ordinati soltanto maschi, “viri”. La riforma del diritto canonico è un passaggio inevitabile per entrare in percorsi di riforma della Chiesa.

Il canonista di mestiere fa l’interprete del codice, ma c’è anche lo ius condendum che significa immaginare un diritto futuro, lavorare per la riforma. Nel diritto civile si fanno forse fin troppe riforme, nel mondo ecclesiale da un secolo a questa parte si è fermi. Sembra che ci sia dietro il diritto canonico del 1917 e della riforma dell’’83 un’istanza ultima aderendo alla quale tutto funziona. Ma non è così. Un canonista mi disse una volta: ecco da quando papa Francesco ha scritto Amoris Laetitia sulla mia scrivania c’è disordine, prima era tutto ordinato. E meno male, perché almeno la tua scrivania è al servizio del mondo e non al servizio di sé, perché il codice tende a far “tornare i conti” con alcuni dispositivi automatici dove tutti i problemi si risolvono facilmente. Il mio professore di diritto canonico nella prima lezione sul matrimonio disse: “Ragazzi, ricordatevi, il codice del sentimento dell’amore non dice niente”. Se il matrimonio non ha niente a che fare con sentimento dell’amore, allora è tutto facile. Nel passato ci siamo illusi di fare un Codice che risolve la pastorale. Un canonista mi ha raccontato che quando fecero il Cic del 1917, il primo, l’idea di alcuni vescovi era che con il Codice tutta la pastorale fosse a posto, perché la norma di riferimento era sempre garantita, ma questo vuol dire burocratizzare la Chiesa, farla diventare un ufficio, un’azienda. Non a caso tutte le riforme che ha fatto papa Francesco, le ha fatte cambiando articoli del Cic. Ed è venuto il momento, credo che, se non lo farà lui, potrà mettere l’obiettivo di fare una riforma.

Non si tratta semplicemente di imitare i parlamenti ma di imitare lo spirito delle leggi, di Montesquieu, dei padri del pensiero moderno. Il diritto ecclesiastico deve entrare in relazione con il modo di pensare il diritto civile e il diritto penale. Lo scandalo è che il diritto penale ecclesiastico pensa tutti i reati come “reati contro Dio” e non “contro la persona”. I codici premoderni potevano pensare i reati contro il re, contro Dio o contro il vescovo e non contro la donna o contro il bambino, che diventano invece semplicemente dei “complici”. In una logica di reato contro Dio non ci sono vittime, l’unica vittima è Dio o il re e tutti gli altri sono complici. Questo è il circolo vizioso di categorie inadeguate.

Ora, rinnovare le categorie del diritto canonico è oggi un compito primario, come lo è far capire ai canonisti che devono fare anche i profeti, come hanno sempre fatto in passato. I canonisti del passato sapevano che la legge non sopravvive a se stessa, che bisogna riformularla per tenerla all’altezza dei tempi. Questo lo sapevano già nei primi secoli, lo sapevano benissimo i medievali. Nell’Instrumentum laboris del Sinodo si dice che bisogna mettere insieme i discorsi pastorali, i discorsi teologici, quelli spirituali, catechistici e giuridici per rendere il tutto funzionale a una Chiesa davvero in uscita. Questo vuol dire incidere pesantemente sul modo di pensare istituzionalmente la Chiesa e non è facile perché sul Cic del ’17 e su quello dell’’83 si sono proiettati molti disegni antimodernistici. Una riforma del Codice di diritto canonico è allora un passaggio obbligato per creare un minimo di divisione del potere della Chiesa, perché se non c’è divisione del potere la sinodalità rischia di ridursi ad aria fritta.