NATALE PER ATEI

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Madonna della Seggiola, (Raffaello Sanzio, 1513-1514, Palazzo Pitti, Firenze). Foto: dominio pubblico, commons/wikimedia.org

(di Michele Illiceto) 

“Il Natale è Dio e mi assomiglia”. Non è una frase detta da un mistico o da un monaco cistercense del Medioevo cristiano ma da un ateo. Il Natale è talmente disarmante che a volte anche atei incalliti si arrendono ad esso e non hanno parole per spiegarlo. Forse non tanto per credere ma per pensare, rammaricandosi di non riuscire a credere. È quanto è accaduto a uno dei più grandi filosofi ed esponente dell’esistenzialismo francese del ‘900, J. P. Sartre, il quale, nel giugno 1940, dopo essere stato fatto prigioniero dai tedeschi, viene trasferito in Germania, nel campo di prigionia di Treviri, dove rimarrà fino all’aprile del 1941. Qui conosce alcuni sacerdoti, tra cui l’abate Marius Perrin, con cui si lega d’amicizia.

Proprio in questo contesto, nasce l’idea di un lavoro teatrale che lo scrittore e filosofo francese scrive in occasione del Natale 1940, Bariona, ou le Fils du tonnerre (Bariona o il figlio del tuono. Racconto di Natale per cristiani e non credenti). In questo periodo Sartre ha già in testa lo schema della sua maggiore opera, L’essere e il nulla, vero fondamento dell’esistenzialismo francese, che comincerà a redigere solo nel 1943. Durante la prigionia Sartre resta colpito dalla figura di Maria di Nazareth, specialmente dal coraggio di questa ragazza nello sfidare i poteri del suo tempo, le tante intemperie e le prove per mettere al mondo il bambino ritenuto Messia.

Copertina di „Bariona o il filglio del tuono“ di J.P.Sartre

In questo racconto emerge un Sartre inedito, molto distante dalla visione nichilistica di Roquentin, il personaggio del suo romanzo più famoso, La nausea, che gli valse nel 1968 il Nobel per la letteratura, il quale afferma che tutto ciò che esiste è contingente, cioè che non ha ragione di esserci, in quanto poteva anche non esistere. Al contrario, è un Sartre che resta disarmato e spiazzato da questo evento della nascita.

Il Sartre che in altre opere scriverà che “gli altri sono l’inferno”, o che “l’uomo è una passione inutile”, o ancora che “L’uomo è un dio mancato”, o peggio che “l’uomo è colui tramite la cui libertà il nulla entra nel mondo”, durante la prigionia sperimenterà la fragilità umana ma anche la solidarietà di cui nei momenti di dolore l’uomo è capace.

Tra i prigionieri vedrà di quale male l’uomo è capace, ma anche di quale bene è in grado di fare per salvare una vita. Vivrà in quell’esperienza un barlume di luce possibile che, anche se non sconfigge tutte le tenebre, di certo non soccombe del tutto. In questo racconto ciò che colpisce è la delicatezza con cui descrive la figura di Maria, la madre di Gesù. Ecco un passaggio delicato e profondo del testo

Ciò che bisognerebbe dipingere sul viso di Maria è uno stupore ansioso che non è apparso che una volta su un viso umano. Poiché il Cristo è il suo bambino, la carne della sua carne e il frutto del suo ventre. L’ha portato per nove mesi e gli darà il seno e il suo latte diventerà il sangue di Dio. (…) Nessun bambino è stato più crudelmente e più rapidamente strappato a sua madre, poiché egli è Dio ed oltre tutto ciò che lei può immaginare. Ed è una dura prova per una madre aver vergogna di sé e della sua condizione umana davanti a suo figlio. Ma penso che ci sono anche altri momenti, rapidi e difficili, in cui sente nello stesso tempo che il Cristo è suo figlio. Lo guarda e pensa: questo Dio è mio figlio. Questa carne divina è la mia carne. È fatta di me, ha i miei occhi e questa forma della sua bocca è la forma della mia. Mi rassomiglia. È Dio e mi assomiglia. E nessuna donna ha avuto dalla sorte il suo Dio per lei sola. Un Dio piccolo, che si può prendere nelle braccia e coprire di baci, un Dio caldo che sorride e respira, un Dio che si può toccare e che vive. Ed è in quei momenti che dipingerei Maria, se fossi pittore, e cercherei di rendere l’espressione di tenera audacia e di timidezza con cui protende il dito per toccare la dolce piccola pelle di questo bambino Dio di cui sente sulle ginocchia il peso tiepido e che le sorride”.

È proprio vero che a volte gli atei sono più vicini a Dio di tanti credenti che pretendono di avere Dio in tasca. Forse, l’ateismo di Sartre, come tante altre forme di ateismo che si sono affermate nella storia della filosofia, più che negazioni di Dio andrebbero lette come rifiuto di un certo cristianesimo sbagliato. In Sartre, come in tanti altri scrittori dichiaratisi atei, c’è una religiosità fuori dalla religione, una religiosità senza fede che al tempo giusto viene fuori e si esprime nelle forme alte dello spirito umano.

Perché Dio, in fondo, non è un’evidenza che prova che ci sia, ma un mistero che inquieta i cuori pensanti, resi cercanti. Non è una risposta, ma una domanda che tutti ci portiamo dentro. Una domanda che il Natale contribuisce a tenere accesa, oltre ogni adesione e oltre ogni negazione. Oltre ogni spiegazione e oltre ogni convinzione.

Il Natale è vertigine, perché ci mette in contatto con l’impossibile; che ci sia Dio e che si faccia anche uomo. Come ha scritto anni fa il filosofo ateo Umberto Galimberti, “Messi al margine del mondo che ogni giorno abitiamo e a contatto con l’origine della nostra esistenza, a Natale proviamo la vertigine di chi si trova per un giorno e a sua insaputa gettato lungo la via faticosa della ricerca di senso, della direzione della nostra esistenza, con l’amara sensazione che il teatro del mondo ci preveda come semplici marionette, mosse da voleri che ci sovrastano e ci impongono, loro sì, una direzione ignota”.

Dov’è la risposta? Non lo so. Io ho provato a trovarla nell’immagine umana e divina della madre col bambino in braccio, metafora e simbolo di ogni madre e del suo bimbo. Perché non c’è nulla di più divino e allo stesso tempo di più umano che una madre col suo bambino in braccio. Il che significa che, per credenti o non credenti, una verità è comunque certa: la vita è una lunga pausa tra due abbracci! E se questo è vero, allora potrebbe essere vero che dopo essere stato Dio a tenere in braccio l’uomo, ora è l’uomo, attraverso una donna, sposa e madre, a tenere in braccio Dio.