La facilità di varcare una frontiera per noi, il futuro negato ai giovani africani nella testimonianza di Renato Tilio, missionario scalabriniano a Casablanca – Vergogna. Sì, un sottile sentimento di vergogna mi prende quando devo fare un biglietto d’aereo. La facilità di muovermi nel mondo ora mi inquieta. In parrocchia, a Casablanca, nella nostra canonica, sono attorniato da una trentina di giovani migranti subsahariani con gambe spezzate, avambraccio rotto o ambedue i piedi a pezzi… Bloccati da noi, finché guariscono. Vengono dal Camerun, Guinea, Gabon… Sono caduti alla frontiera del Marocco con la Spagna. Da quell’altissima cinta di sette metri con lame e reticolato, che fa venire le vertigini, specie quando vedi sotto tutto un accorrere di cani, camionette, girofari e poliziotti… Per loro passare una frontiera diventa un atto eroico. Per me, un volo d’ali. Questi giovani mostrano un coraggio che trasporta le montagne. Il loro interminabile viaggio tra Mali, Mauritania, Algeria e Marocco, una vera odissea. Ma, infine, questa altissima barriera per entrare a Ceuta è un’avventura temibile: la ripetono per dieci, venti volte o più… «Se Dio ha scritto che passo, passerò…» ti dicono, come un vero atto di fede. Non solo in Dio. Ma nel loro stesso avvenire. «Tu sei nato dalla parte buona del mondo!» ti aggiungono, con una punta di amarezza. E vedi nei loro occhi, adolescenti o giovani sui vent’anni, una vera sete di dignità, di rispetto o di libertà che ti strappa l’anima.
È vero. È la libertà di partire, la libertà di restare o la libertà di tornare. Per un essere umano, sembra più che una formula, un diritto che ormai si fa largo nelle nostre coscienze. Ma diventa tragico, quando ci si trova tra incudine e martello. Tra la tua terra, dove miseria, corruzione, povertà ti scacciano via con la tua giovinezza e la tua voglia di vivere come uno straccio. E l’Europa, riunchiusa come una fortezza inespugnabile, che innalza il ponte levatoio. Si ritorna al medioevo, dove si respira aria di assedio, di feudi e di balzelli… Lo si vede da qui, in terra di Marocco, terra di frontiera. Per questa gioventù subsahariana in transumanza per migrare, per avere una vita migliore, ma proprio qui bloccata, in condizioni disumane e disperate di stallo. Ed è solo la piccola punta di un iceberg di quasi trecento milioni di esseri umani in emigrazione. Altra via d’uscita sarebbe il mare. Si chiama qui «patèra»: una semplice barca da pescatori per attraversare nella notte dagli anfratti nascosti di Tangeri verso l’Europa. Il viaggio costa loro 3.000/3.500 euro, dissanguando le loro famiglie: un’enormità! Ma spesso costa ancora di più: la loro stessa vita. E ritornare indietro, dopo tanto patire, è una convinzione che con difficoltà in loro si fa strada…
Il tragico è, in realtà, a casa nostra. La denatalità, la senilità crescente, il bisogno vitale di manodopera per imprese e aziende, la scrematura delle forze giovanili, laureate o diplomate, che volano all’estero in cerca di vere opportunità… tutto ciò spoglia un Paese e il suo futuro. Il nostro. La mancanza di flussi regolari di entrata, di gestione intelligente, accompagnata e attenta del fenomeno migratorio. Nel 2050 è previsto il raddoppio della popolazione africana. Se continuano miseria, violenza, guerre e corruzione la situazione non potrà migliorare. «Emigrare non è che il frutto delle vostre politiche in casa nostra» vi dirà sconsolato Ibrahim. «Politiche prive di solidarietà, di orizzonte, chiuse nel proprio interesse, fatte di alleanze malsane o di esportazione d’armi o di giri di grossi affari». Arrivato a Maputo (Mozambico), anni fa, chiedevo se ci fossero italiani. «Sì, signore, sono nei boschi: tagliano e portano via. Qui è tutto legno pregiato!». Si chiama «arte predatoria»… Sì, emigrare è il frutto avvelenato di tutto questo.
La Chiesa del Marocco si è fatta buona samaritana per tutta questa umanità in cammino. Generalmente è gioventù musulmana, ma che solo nelle parrocchie cristiane trova pace, rifugio e cura, come a Oujda, a Tangeri o a Casablanca. D’altronde, la realtà ecclesiale è anche ringiovanita in questi anni. Migliaia di studenti universitari subsahariani attratti dal Marocco con borse di studio, presso le università di Fes, di Rabat, di Marrakech, di El Jadida o altrove sono cristiani… Questo Paese coltiva, così, per 4 o 5 anni futuri leaders dei Paesi africani. E ciò promuove con lungimiranza un avvenire di collaborazioni feconde e di relazioni internazionali. «Sai, quel giovane che studiava architettura e faceva parte della corale ? – mi fa qualcuno in parrocchia – È diventato ministro dell’Ambiente in Gabon». Da noi, invece, pare che il cursus di uno studente straniero assomigli piuttosto a una via crucis che non finisce mai…
A quando, allora, anche da noi una politica internazionale a largo respiro, di solidarietà e di prospettiva d’avvenire che superi le frontiere? Senz’altro non quando si mette in scacco matto – come recentemente – uomini alla guida del Paese dalla statura internazionale e dalla serietà pragmatica imparata all’estero. Anche qui le frontiere valgono, solo perché oltrepassate. «L‘uomo impara sempre a vivere», commentava amara la poetessa Alda Merini, «quando è troppo tardi».