Riflessioni in tempo di Pasqua di Michele Illiceto e le parole di don Tonino Bello
- di Michele Illiceto
All’alba – quando la notte ancora si confonde con il giorno, quando tutto ancora dorme il sonno della sconfitta, quando il vuoto e il silenzio del sepolcro sembrano aver avuto l’ultima parola sulla vicenda umana di questo strano profeta di Nazareth, ribelle e rivoluzionario, amico dei poveri e compagno degli ultimi, narratore di un Dio poco creduto – ecco accadere un fatto straordinario: la morte, ora, è solo un abbraccio vuoto che non riesce a trattenere nulla, neanche se stessa, figuriamoci l’autore della vita. Essa è stata vinta da un gesto che l’ha superata, che l’ha ri-significata, trasfigurandola e trasformandola, lasciando in tal modo che il sepolcro restasse per sempre vuoto.
A Pasqua la morte, come dice S. Paolo, ha perso il suo pungiglione. Non fa più paura, dice Gesù: “Non temete coloro che hanno il potere di uccidere il corpo, temete piuttosto colui che puoi farvi morire dentro” (cfr. Mt 10, 28).
La morte è stata vinta da un gesto più grande: quello dell’amore. Per questo essa, ora, non può più usare il dolore come ricatto per farci smettere di amare, perché il Nazareno ha rovesciato il rapporto tra amore e morte. Come dice il Vangelo di Giovanni, Egli, avendo amato i suoi, li amò fino alla fine (cfr. Gv 13,1), cioè fino al compimento, fino in fondo, fino all’ultima goccia, riuscendo così a spingersi fin là dove la morte non ha il potere di arrivare, perché il fondo dell’amore, che la croce ci ha rivelato, è più abissale della stessa morte.
È inutile! Non serve amare, se non ami fino alla fine, fino in fondo, fino al non-amore di chi ti messo in croce, o della stessa morte. Il fondo dell’amore si trova molto più in profondità di quello della morte. Raggiuntala, non solo la supera, ma la trapassa e la trasforma, la trasfigura in “sorella morte”.
La filosofa Hannah Arendt disse che il Bene – e quindi l’amore – è più profondo del male, e quindi della morte! Chi ama sottrae alla morte l’amato, come Cristo ha fatto con ogni uomo, suo amato!
La Pasqua è la vittoria della vita sulla morte. Molti intendono, però, tale morte solo nella sua dimensione fisica, corporale. Invece, quando si parla di morte, bisogna allargare il suo orizzonte semantico, intendendo con essa le tante forme di morte che, spesso, ognuno di noi, in un certo qual modo, si trova a sperimentare proprio mentre ritiene di vivere.
Quali sono queste morti?
La prima è la morte interiore, che, per noia o per abitudine, ci impedisce di coltivare dentro di noi uno spazio in cui, ogni tanto, raccoglierci per mettere ordine nella nostra vita. Morte che fa di noi dei deserti aridi dai quali scappare, persi tra mille cocci vuoti, difficili da raccogliere e ricomporre. Pasqua, allora, è far rinascere l’uomo interiore dove ciascuno può trovare la leva per risollevare non solo se stesso dalle proprie cadute e sconfitte, ma addirittura il mondo intero.
La seconda è la morte culturale, che ci inchioda a ciò che pensiamo di sapere, impedendoci di cercare ancora. Morte che spegne la curiosità e il senso dello stupore, cristallizzando i saperi e le conoscenze in schemi rigidi e consolidati, a volte fatti di inutili citazioni, che sanno solo di autocelebrazione. Pasqua, invece, è riaccendere la passione per la verità, quella che rende liberi, e che sempre esige il confronto con i nuovi dubbi e le domande inedite.
La terza è la morte sociale, che dichiara morto il prossimo, considerato sempre e comunque come rivale o, peggio, come nemico da eliminare o da dominare, e non, al contrario, come fratello da amare e con cui camminare insieme. Morte che chiude ciascuno nel proprio triste egoismo e non ci aiuta a fare comunità. Pasqua, allora, è far rinascere il senso di appartenenza alla nostra città, perché ciascuno, secondo le proprie possibilità e talenti, possa, con la dovuta cura, contribuire alla costruzione del bene comune.
La quarta è la morte educativa, che impedisce agli adulti, spesso demotivati e inadeguati, di assumersi la responsabilità nell’aiutare le nuove generazioni a costruire la loro personalità con autonomia, a instaurare un buon rapporto con se stessi, con gli altri e con il mondo, affinché ciascuno diventi autore responsabile delle proprie azioni. Pasqua, in tal caso, è far rifiorire la passione educativa e superare quel senso di impotenza e di scoraggiamento che aleggia in molti luoghi educativi.
La quinta è la morte delle relazioni, specie quando ad esse mancano profondità e durata. Relazioni ferite che non durano perché il più delle volte sono costruite sull’effimero e sul proprio tornaconto emotivo. Pasqua, invece, è fa rinascere i rapporti, il cui senso è cercare, per non restare eternamente solo, qualcuno da amare, dopo che, a sua volta, si è stati amati. Che la Pasqua rigeneri le relazioni, per poterci approcciare gli uni agli altri con quel senso di delicatezza e di rispetto che fa di ognuno una terra sacra, non da calpestare o usare, ma da rispettare e custodire. Per non giocare con i sentimenti altrui, ma farsi carico ognuno del dolore altrui.
Insomma, Pasqua è rinascere da tutte queste morti – e da tante altre – di cui non vogliamo prendere coscienza e che rimuoviamo, ricorrendo a mille meccanismi di difesa, spesso inconsci, altre volte costruiti per paura o per fragilità, o anche per inerzia, adottando false tecniche di rassicurazione o di evitamento.
Il vescovo don Tonino Bello, pensando a tutte queste morti, affermava che “sembriamo notai dello status quo, dell’esistente, e non i profeti dell’aurora che irrompe, del futuro nuovo, dei cicli nuovi, delle terre nuove”. Sembriamo tanti sepolcri, tenuti chiusi da enormi macigni, dai quali difficilmente riusciamo a liberarci.
Ebbene, la Pasqua è liberare la vita da tutti questi sepolcri in cui ci troviamo incapsulati.
Sempre il vescovo di Molfetta augurava la Pasqua così: “Vorrei che potessimo liberarci dai macigni che ci opprimono, ogni giorno: Pasqua è la festa dei macigni rotolati. È la festa del terremoto. La mattina di Pasqua le donne, giunte nell’orto, videro il macigno rimosso dal sepolcro. Ognuno di noi ha il suo macigno. Una pietra enorme messa all’imboccatura dell’anima che non lascia filtrare l’ossigeno, che opprime in una morsa di gelo; che blocca ogni lama di luce, che impedisce la comunicazione con l’altro. È il macigno della solitudine, della miseria, della malattia, dell’odio, della disperazione del peccato. Siamo tombe alienate. Ognuno con il suo sigillo di morte”.
E in un altro messaggio concludeva: “Il Signore è Risorto proprio per dirvi che, di fronte a chi decide di “amare”, non c’è morte che tenga, non c’è tomba che chiuda, non c’è macigno sepolcrale che non rotoli via. Auguri. La luce e la speranza allarghino le feritoie della vostra prigione”.
Il Cristianesimo non è la religione dei ricordi, ma un esercizio di fede che attualizza il mistero dell’amore nella vita di tutti i giorni, sì da poter trasformare ogni alba e ogni mattino in un mattino di Pasqua!