Le parole del Giubileo: speranza

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La Speranza di Raffaello Sanzio, presso la Pinacoteca Vaticana ©Wikipedia,Di Raffaello Sanzio - www.aiwaz.net, Pubblico dominio.

Quale speranza nella società dell’angoscia? Riflessioni a margine dell’ultimo libro del filosofo sudcoreano che vive a Berlino Byung Chul Han. Michele Illiceto a partire dalle riflessioni del filosofo approda a san Paolo.

  • di Michele Illiceto

Il 24 dicembre 2024, con l’apertura della Porta Santa della Basilica di San Pietro, papa Francesco ha dato inizio all’anno giubilare che ha come tema la speranza, tema da sempre caro caro sia al pensiero laico e filosofico che a quello religioso e teologico. Infatti, è da poco  uscito in italiano l’ultimo libro del filosofo sudcoreano, naturalizzato tedesco, Byung Chul Han, docente di Filosofia alla Universität der Kunste di Berlino, dal titolo Contro la società dell’angoscia. Speranza e rivoluzione, (Einaudi, 2025), titolo originale Der Geist der Hoffnung wider die Gesellschaft der Angst (Ullstein Verlag).

Con questo articolo si vuole offrire una riflessione su questa importante categoria, per aiutare a riflettere e a trovare sempre la forza e il coraggio sempre nuovi per ripartire e ricominciare. Il testo di Byung Chul Han, poco più di cento pagine, si muove su un doppio registro, quello della speranza e quello dell’’angoscia, strettamente collegate tra di loro e utilizzate come cifre e categorie fondamentali per interpretare l’attuale scenario sia sociale che culturale.

Già nelle prime pagine, Hun analizza tre tipi di rapporto. Il primo riguarda quello che intercorre tra l’angoscia e la fine della democrazia, il secondo tra l’angoscia e la fine del pensiero, il terzo tra l’angoscia e la perdita della libertà.

Sviluppando il primo punto (angoscia e democrazia) Hun sostiene che l’angoscia stia mettendo in serio pericolo la democrazia: “La democrazia può crollare quando cediamo all’angoscia. Angoscia e democrazia sono incompatibili. La democrazia può progredire in modo sano e forte solo all’interno di un’atmosfera di riconciliazione e di dialogo” (p. 8). Riprendendo un concetto caro alla Scuola di Francoforte, secondo cui la paura è un ottimo strumento che i potenti di turno usano per imporre il proprio comando, Hun sostiene che “L’angoscia è uno strumento di dominio molto diffuso. Rende ubbidienti e ricattabili” (p. 8).

La causa di tutto ciò, secondo il nostro autore, sta nel fatto che nella società dell’angoscia ogni forma di prossimità perde valore, e “la solidarietà, l’amicizia e l’empatia subiscono una erosione”. A dominare, invece, è il risentimento (p. 8).

Passando a sviluppare il secondo rapporto (angoscia e fine del pensiero), l’autore sostiene che ormai si prova perfino “angoscia per l’attività di pensare”. In tal modo ci precludiamo l’accesso a ciò che è completamente Altro, a ciò che è oltre e Altrove. E senza l’Altro non vi è pensiero. Non vi è tensione, ricerca, domanda. La conseguenza è che “in un clima d’angoscia persiste l’Uguale e si impone il conformismo” (p. 9). E l’Uguale, per Hun, coincide con la “logica dell’efficienza e della produttività” (Ivi).

In terzo luogo, il libro passa a esaminare il complesso rapporto tra angoscia e libertà: “Dove domina l’angoscia, nessuna libertà è possibile. Angoscia e libertà si escludono a vicenda. L’angoscia può trasformare l’intera società in una prigione, metterla letteralmente in quarantena” (p. 9). Sviluppando un tema trattato in un suo precedente libro del 2014, dal titolo La società della trasparenza (Nottetempo, 2014), Hun non sta parlando di una prigione esteriore, ma di una prigione interiore.

L’angoscia annulla, la speranza crea

A questo punto, il filosofo sudcoreano, comincia a mettere in evidenza un primo ruolo che svolge la speranza. Infatti, al contrario dell’angoscia, «la speranza erige, crea segni che marcano una direzione, che indicano un tracciato. Solo nella speranza noi siamo in cammino. È lei a darci senso e orientamento. L’angoscia, di contro, rende impraticabile ogni percorso» (p. 9).

L’angoscia ci priva anche di azioni, ci blocca e ci paralizza. Ci inibisce. Ci rende sempre meno attivi e molto più imitativi. E senza azioni non vi è futuro. Ecco perché “l’angoscia ci priva di futuro”. Per agire, però, bisogna avere motivazioni, proprio quelle di cui l’angoscia ci priva. L’angoscia è l’assenza di motivazioni, di spinte emotive, di sogni, di slanci. Ormai siamo nell’era del disincanto dove le utopie hanno poco credito e nessuno spazio.

Aveva ragione il filosofo dell’angoscia, il danese S. Kierkegaard, il quale diceva che l’angoscia è il sentimento che l’uomo prova di fronte al nulla. Han, indirettamente, riprende questo aspetto, in quanto anche per lui l’angoscia annulla: “Gli atti motivati e guidati dall’angoscia non corrispondono ad azioni capaci di aprire un futuro. Le azioni hanno bisogno di un orizzonte di senso. Esse devono poter essere narrate” Al contrario, “la speranza è loquace. La speranza narra. L’angoscia di contro non può accedere al discorso, non sa farsi racconto” (p. 10).

Insomma, l’angoscia ci fa produrre parole insensate e, soprattutto, non ci fa fare la grande esperienza della narrazione, che non è la semplice trasmissione di storie vissute, ma offrire la possibilità che quelle storie raccontate possano essere di nuovo immaginate. Come facevano i nostri nonni che usavano il passato e le loro storie come la prova di un futuro possibile.

Da ultimo, Han ci ricorda che secondo un’antica etimologia tedesca, il termine angoscia significa originariamente strettezza, un qualcosa che soffoca ogni ampiezza, che restringe il campo visivo e sbarra la vista. “Chi prova angoscia si sente spinto in una strettoia. L’angoscia va di pari passo con la sensazione di essere preso, imprigionato, rinchiuso. Nell’angoscia il mondo ci appare come una prigione. Tutte le porte che conducono fuori, all’aperto, sono serrate. Essa preclude, ostruisce il futuro poiché rende inaccessibile il possibile, il nuovo” (p. 10).

Insomma, nell’angoscia ci manca l’apertura, una zona di passaggio. Ci manca l’oltre. L’angoscia impedisce l’attraversamento, produce chiusura e la chiusura a sua volta porta all’isolamento, che ci fa cadere in un diverso tipo di solitudine, tipica dello sciame, temine che Han ha usato come titolo di un altro suo libro (Nello sciame. Visioni del digitale, Nottetempo, 2023). Non si tratta della solitudine di chi è solo senza gli altri, ma, paradossalmente, quella di chi è solo proprio perché ci sono gli altri, percepiti come minaccia e non come un’opportunità. Percepiti non come un oltre che ci spiazza e ci sorprende, mettendoci in attesa, ma come un luogo dato già per scontato, assuefatto, decifrato, catalogato e omologato, digerito e accantonato. Gli altri, senza l’altro e senza l’oltre, sono un luogo senza futuro.

Chi ci può aiutare in tutto questo? Chi ci può aiutare a recuperare questo senso dell’oltre quale luogo dell’altro? Solo la speranza, quale vera “controfigura dell’angoscia” (ivi). Ma di questo parleremo nelle prossime puntate.

La speranza vera controfigura dell’angoscia

Dopo aver delineato alcuni caratteri dell’angoscia, Han passa a definire la speranza, o almeno alcuni caratteri di essa. Il primo di questi è il protendersi verso il futuro. Riprendendo il dizionario etimologico di Friedrich Kluge, Han sostiene che sperare è proprio di “cerca, sporgendosi in avanti, di vedere piú lontano, con piú accuratezza. Pertanto, speranza significa: guardare lontano, verso il futuro” (p. 10).

Insomma, la speranza esige una sporgenza. E chi si sporge, lo fa proiettandosi in avanti, per cercare una direzione. È chiaro però che chi si sporge, si espone. Questo significa che non siamo noi che aspettiamo il futuro, ma è il futuro che aspetta noi. La speranza esige fiuto e intuizione. Esige una visione che rompe con il già veduto, con il già visto, con il già dato.

Il secondo elemento è dato dal fatto che la speranza ha a che fare con la negatività. Solo che si tratta di una negatività del tutto particolare. Il “non” della negazione con cui ha a che fare la speranza non è assoluto, ma relativo, perché ha a che fare con il divenire del tempo. È il non della lontananza e della distanza. Ma tutto ciò, se da un lato esige pazienza e sofferenza, dall’altro esige forza e coraggio che insieme ci consentono di attraversare il tempo apparentemente debole del rimando e del ritardo, tutte condizioni che ci portano invece a disperare.

Ecco perché è nel cuore della disperazione che si comincia a sperare. “La speranza piú intima –  sostiene Han – si risveglia proprio nel cuore della disperazione assoluta” (p. 11). Non solo i greci, ma anche Paolo di Tarso sottolinea come inerente alla speranza vi sia una negatività, quando afferma che “la tribolazione produce perseveranza, la perseveranza virtù provata, la virtù provata speranza e la speranza non può essere motivo di vergogna”.

A questo punto Han cita Nietzsche, il quale, in Umano, troppo umano, afferma che “La speranza è l’arcobaleno gettato al di sopra del ruscello precipitoso e repentino della vita, inghiottito centinaia di volte dalla spuma e sempre di nuovo ricomponentesi: continuamente lo supera con delicata bella temerarietà, proprio là dove rumoreggia più selvaggiamente e pericolosamente” (p. 11). Come a dire che la speranza, anche se inghiottita dalla disperazione, riemerge sempre e comunque proprio laddove si fa di tutto per annichilita.

Un terzo carattere della speranza è che ti fa vedere cose che altri non vedono. E in questo senso è contemplativa: “Dentro la speranza abita un che di contemplativo. Essa si protende in avanti e sta in ascolto. La sua ricettività la rende temeraria, le conferisce bellezza e grazia“. (p. 12).

A questo punto Han comincia a dire che cosa non è la speranza. Ad es. essa non va confusa con l’ottimismo, e questo perché „Al contrario della speranza, all’ottimismo manca ogni negatività. L’ottimismo non conosce né il dubbio né la disperazione. La sua essenza è la piatta positività. L’ottimista è convinto che le cose andranno per il meglio” (p. 12).

Inoltre per l’ottimista “il tempo è chiuso. L’avvenire come campo indeterminato del possibile gli è sconosciuto. Niente accade. Niente lo sorprende. Il futuro gli appare come a portata di mano“ (p. 12). Invece, per chi spera il futuro non è disponibile, non è prevedibile né pianificabile. Chi spera deve fare i conti con la distanza temporale, con il ritardo o addirittura con l’inaspettato e l’imprevisto che rende il futuro non calcolabile.

Inoltre, al contrario di chi è ottimista, “al quale non manca nulla e che non è in cammino, la speranza si presenta come un movimento di ricerca. La speranza è un tentativo di conquistare, raggiungere, afferrare una posizione e una direzione. Proprio per questo si avventura anche nell’ignoto, nel sentiero non battuto, nell’aperto, in ciò-che-non-è-ancora, poiché si protende oltre il già stato e oltre il semplicemente presente. Essa si dirige verso ciò che non è ancora venuto al mondo. Si apre al nuovo, al totalmente Altro, a ciò che non c’è mai stato”(p. 12).

Da ultimo, la posizione dell’ottimista non è una condizione che si conquista. Non costa nulla, per questa è troppo ingenua. Non conosce il dolore e la fatica della resistenza. L’ottimismo, scrive Han “è completamente autoevidente e privo di dubbi” (p. 12). C’è e basta!

L’ottimismo è indolore, mentre la speranza è profondamente dolorosa, perché lavora su ciò che è ancora assente. Scrive a tal proposito il filosofo T. Eagleton nel suo libro Speranza senza ottimismo, (Ponte delle Grazie, 2017), “Se sei ottimista non puoi farci niente. […] Sei incatenato alla tua gaiezza come lo schiavo al remo: è una prospettiva piuttosto cupa”.

L’ottimista si muove nell’ambito della pura e sterile ovvietà, la speranza, invece, non si presenta come qualcosa di ovvio. “Essa risveglia. Nella maggior parte dei casi deve essere evocata, implorata” (p. 13). Inoltre, per sperare bisogna trovare delle ragioni plausibili e, tuttavia, non sempre comprensibili. La speranza deve rendere conto di ciò che spera, e, proprio per questo, impegna e coinvolge, creando, in chi la vive, una sorta di “engagement” tanto caro a J. P. Sartre. Insomma, „al contrario dell’ottimismo, che è privo di ogni risolutezza, la speranza attiva mostra un coinvolto impegno. L’ottimista non agisce affatto. E all’azione è sempre connesso un rischio.“(p. 13)

Lo dice anche S. Pietro nella sua Prima Lettera, quando, scrivendo ai primi cristiani martiri perseguitati a causa della loro fede, si rivolgeva loro, esortandoli e dicendo “Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (1 Pt 3,15).

Perché, mentre chi spera, rischia tutto, e lo fa sulla propria pelle, l’ottimista, invece, non rischia nulla, e se la cosa non si verifica, egli ne esce sempre indenne.