Don Paolo Santoru, missionario a Saarbrücken, rientra in Sardegna e racconta la sua esperienza ventennale in Germania. Nella diocesi di Trier i cattolici italiani sono attualmente 17.392, in vent’anni sono diminuiti di qualche migliaio e Saarbrücken è rimasta l’unica missione italiana dopo la chiusura di quelle di Saarlouis e Coblenza.
Come è arrivato in Germania, a Saarbrücken, vent’anni fa?
È stato un caso. Vent’anni fa lavoravo per l’Apostolatus Maris (Apostolato del Mare che cura pastorale dei Marittimi), ambito che ancora era integrato nella Fondazione Migrantes. Lavoravo sulle navi della Costa Crociere già da otto anni. All’amministratore della Compagnia non era piaciuta un’intervista rilasciata su Avvenire riguardante la vita degli equipaggi a bordo delle navi, e aveva chiesto il mio sbarco. Il Direttore nazionale della Migrantes era allora don Luigi Petris ed era anche facente funzione del Direttore dell’Apostolato del Mare che si era ammalato gravemente. Mi ha proposto di venire in Germania in cui era stato già missionario a Saarbrücken e anche Delegato nazionale.
Dopo vent’anni rientra in Italia, alla fine di settembre, nella sua diocesi di Sassari. Sa che incarico l’aspetta? Hanno già trovato un prete che la sostituisca alla missione?
No, non so che cosa mi aspetta. Sarà un salto nel buio. Ho parlato con il vescovo che sarei rientrato in diocesi ma non mi ha preannunciato niente di particolare. Manco dalla diocesi dal 1987 e quin di sarà per me una realtà nuova e sconosciuta. Però sono curioso. Leggo, sento, vedo, e in qualche modo seguo anche le vicende dell’immigrazione in Italia. Paragonata alla Germania, nazione di “antica” emigrazione, certamente la differenza è notevole. Se penso che qui in Saarland gli italiani arrivati prima del 1960 erano quasi esclusivamente clandestini, può capire la mia irritazione e incomprensione riguardo al trattamento di chi arriva in Italia con gli stessi problemi. E mi creda, rimango sconcertato da chi si dice “cristiano” ma non vede e non riconosce le necessità umane del suo simile. Riguardo al prete che mi sostituirà non posso fare il suo nome perché ancora non è stato ufficializzato e confermato dalla diocesi di Trier. Ma si sa che la diocesi è un mastodonte lentissimo. Comunque si saprà ufficialmente, me lo auguro, entro la metà di settembre e sarà il nuovo missionario dal 1° ottobre. Al vescovo, nelle mie dimissioni avevo offerto la mia disponibilità nell’accompagnarlo per qualche tempo ma dall’aria che tira da queste parti non so se ce lo permetteranno.
È rimasto vent’anni qui in Germania, nella missione di Saarbrücken. Che cosa l’ha tenuta qua, al di là dello spirito di servizio?
Non so cosa mi ha tenuto qua. Ma penso che rientri nella naturalità dell’essere prete. Da parecchi anni sono rimasto l’unico prete italiano in diocesi E questo ha cominciato a pesarmi tanto. Gli italiani si sono sentiti abbandonati e questo l’ho provato anch’io. Ho visto la Comunità cattolica italiana di Saarlouis disgregarsi, perdersi e disperdersi. Fino al 2006 avevano un prete tutto per loro. La stessa cosa è capitata alla Comunità di Koblenz. Saarlouis è stata comunque seguita ma Koblenz è troppo lontana da Saarbrücken. Hanno chiuso le missioni perché non arrivava un prete, vero è però che la diocesi non ha dato il consenso ad almeno due preti. A me davano come motivazione la mancanza di soldi. Ne parlai con il vescovo, che rise della motivazione, diede un impulso per far venire un altro prete italiano poi questo input si è perso nei meandri della curia… mi sembrava di essere in Italia quando si parla e non si concludono le cose. Cosa avrei dovuto fare? Andarmene? Nessuno dei preti italiani penso stia in Germania per se stesso, ci siamo per la comunità… Peccato che però spesso ci sentiamo e veniamo considerati di categoria inferiore. Lavorare in Germania, al di là del fatto che mastico poco la lingua, è stato pesante perché si hanno rapporti con i preti che si conoscono e coi quali c’è amicizia, ma con gli altri c’è completa indifferenza. È troppo poco essere presi in considerazione per la cosiddetta Messa delle Nazioni: è una messa folcloristica per far sapere in diocesi che ci siamo, però non siamo sullo stesso piano. C’è difficoltà a vari livelli nell’essere considerati facenti parte della stessa Chiesa diocesana. Speriamo che con i Pastoralräume, già in funzione peraltro, si venga considerati unica Chiesa con pluralità di tradizioni, lingue e culture etc…
Ma non è anche che nelle missio cum cura animarum in alcuni casi, senza generalizzare, ci sia stata una tendenza all’isolamento, un voler coltivare il proprio orticello?
Sì è vero. Ma credo sia conseguenza del sentirsi minoranza. Giusto un esempio: ricordo nel 2006 quando andò via il prete di Saarlouis, perché vendettero il caseggiato della missione, il parroco del posto mi chiese che cosa ci stavamo a fare noi, visto che c’erano già loro.
E vai per anni e anni a spiegare che non siamo Chiesa italiana ma Chiesa diocesana di Trier e che il nostro ruolo non è creare una Chiesa parallela ma un aiuto alla stessa e unica Chiesa diocesana con diversi figli che parlano e pregano anche in modo differente… Credo che
questo pensiero e ruolo non sia ancora stato accettato nella Chiesa tedesca.
Che cosa pensa del processo di riscrittura delle parrocchie in corso nelle diocesi tedesche in cui stanno abbandonando il modello missio cum cura animarum, come accennava anche per la diocesi di Trier (Pastoralräume)?
I Pastoralräume sono un’idea ecclesiologica nuova, conseguenza del calo numerico dei preti e del numero di fedeli in Germania. Essendo nuova è tutta da provare e verificare nel tempo. Personalmente penso sia positiva come idea. Ma già mi risultano reazioni contrastanti sia nel clero che nei fedeli, dovute non solo al campanilismo ma soprattutto alla rinuncia e condivisione dei beni materiali. Non sono d’accordo nell’abbandono del modello Missio cum cura animarum che ha fini e soggetti diversi. Qui in diocesi, per esempio, sarebbe una forzatura che la Missione venisse integrata solo nei Pastoralräume di Saarbrücken. Gli italiani non vivono solo qui in città ma in tutta la diocesi. I nostri fedeli fanno anche decine di chilometri per venire a Messa la domenica. Il nostro lavoro, come preti, è e sarà sempre trasversale nei vari Pastoralräume così come prima lo era per le diverse parrocchie. D’altra parte, ora saranno gli stessi preti tedeschi che dovranno essere trasversali e non sedentari nei locali Pastoralräume. In questo, lo dico senza vanità, saranno loro a dover imparare dalle Missioni.
Che cosa si porterà in Italia dopo l’esperienza tedesca?
Lavorare nel campo dell’emigrazione è un’esperienza unica e arricchente. Lo dico sia per l’esperienza fatta coi Marittimi sia per quella attuale con gli italiani in Germania. Grazie a Dio ho capito che la Chiesa non è il campanile. E che la Chiesa non è la chiesa nazionale o territoriale o
particolare o chissà cos’altro preconfezionato. La Chiesa è un organismo vivente composto da credenti ma che non tiene fuori chi ancora
non ne fa parte. Certamente porterò con me una ecclesiologia aperta al confronto.
A tal proposito mi colpì una sua frase tempo fa che forse dà una chiave di lettura in più circa la differenza fra ecclesiologia italiana piuttosto che quella tedesca. Lei disse che “in Italia siamo ancora molto protetti dalla tradizione, mentre qui no”. Che cosa significa questa frase, che c’è un altro rapporto fra clerici e laici e un’altra attitudine di affrontare i problemi?
La nostra ecclesiologia, in generale, è quella spicciola, sacramentale, molto legata alla tradizione, abbastanza chiusa, clericale. Quella tedesca non ha una via di mezzo. Ci sono i tradizionalisti, molto tradizionalisti; e i progressisti, molto progressisti. È difficile trovare una via
di mezzo. E poi c’è un confronto diretto con la chiesa evangelica. È vero che la chiesa cattolica sembra che si stia protestantizzando ma è
altrettanto vero che la chiesa protestante si sta cattolicizzando. Qui ci si confronta in trincea. Nella realtà italiana vanno forte le sagre popolari, le processioni, i santi da ricordare, i funerali, le messe, ….quanto può resistere questo tipo di religiosità? Nelle città va scomparendo. Ma è altrettanto vero che in Italia il rapporto tra preti e fedeli è molto stretto, più personale e comunque molto più umano. Nella realtà rurale, nelle periferie la Chiesa è aggregazione, è comunione. Purtroppo qui in Germania è invece percepita più come “azienda”, e anche chi ci lavora si sente uno “stipendiato”.
Che idea si è fatta del Synodale Weg?
Rispondo con altre domande: quanta attenzione stanno dando ai fedeli di altra madrelingua? Quanto è presente questo problema nel
Synodaler Weg? Quanto si è vicini umanamente alle persone come persone e non come Istituzione-Azienda preoccupata della disaffezione dei fedeli?
Grazie don Paolo e auguri per il suo futuro servizio nella Chiesa