In ricordo di lui

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Il vescovo Heiner Wilmen onora la vita e l'opera di papa Francesco durante una messa nel duomo di Hildesheim ©Bistum Hildesheim.

„Per lui la preghiera per la pace non era una fuga dal mondo, ma una rivoluzione silenziosa, perché lo Spirito vuole la vita non la morte“.

  • di Heiner Wilmer

Rientrando da Roma, dove ha partecipato al funerale di papa Francesco, mons. Heiner Wilmer, dehoniano vescovo di Hildesheim, ha fatto giungere a Settimana News la versione italiana rielaborata dell’omelia che ha tenuto domenica 27 aprile nel corso della celebrazione eucaristica di suffragio svoltasi nel duomo della città. Pubblichiamo l’omelia del vescovo Wilmer per concessione della redazione di Settimana News.

Ci sono parole che riassumono una vita. Ci sono vite che, pur complesse e sfaccettate, riescono a farsi riassumere in una parola – quando questo accade, tocchiamo il mistero profondo di una persona: la sua lotta, la sua speranza, la sua eredità. Per papa Francesco, questa parola è misericordia.

Ben prima di essere il fulcro del suo ministero, misericordia è stata per Jorge Maria Bergoglio un’esperienza: l’essere toccati dal palpito del cuore di Dio e il lasciarsi toccare dalla sua dedizione senza misura.

Fedele all’esperienza di un Dio che è misericordia

Bergoglio si è sentito guardato con misericordia da Dio ed è così che egli, da gesuita, vescovo e papa, ha guardato al mondo – amato senza limiti dal Dio che si fa corpo, carne, storia nel vissuto di Gesù. Quando si è toccati dalla misericordia di Dio, questa ti entra nelle ossa, fa corpo unico con la tua esistenza. Così è stato di papa Francesco, che è rimasto fedele a questa esperienza di Dio anche quando si è ritrovato a doversi vestire di bianco. La solennità del ministero assunto per la Chiesa e per il mondo non ha scalfito in nulla la tenerezza con cui quel Dio gli chiedeva di guardare e toccare la gente.

Il primo viaggio di papa Francesco lo ha portato a Lampedusa – perché lì lo spingeva il suo essere ministro di un Dio misericordioso. È andato in questo luogo, dove la sofferenza dei rifugiati scava ferite visibili nel cuore dell’Europa. Qui Francesco ha messo a nudo la globalizzazione dell’indifferenza, di una logica mondana che produce scarti dell’umano. Qui Francesco ha lanciato il suo monito, volto a destare i cuori assopiti di tutti noi: «Abbiamo disimparato a piangere».

Francesco non ha disimparato a piangere: ha pianto per la guerra in Ucraina; per i bambini di Gaza; per tutti quei frammenti di terza guerra mondiale che si va componendo dai suoi tanti pezzetti. Ha pianto per l’indifferenza dell’umanità. Ma non ha mai smesso di sperare.

Uno di noi

Chiunque l’abbia incontrato ha percepito che era un uomo del popolo, un fratello – non un sovrano. Un vescovo di Roma, non un sommo pontefice. Un papa in sedia a rotelle con un poncho nella basilica di San Pietro, una settimana prima di morire. Un papa che ha ringraziato per essere stato portato fra la gente, fra la sua gente, per benedirla insieme al mondo, il giorno prima di morire.

Un papa solo sotto la pioggia in piazza San Pietro, a pregare e benedire le persone della terra mentre il mondo era fermo per la pandemia. In quella sera, in quel vuoto misterioso, papa Francesco non ha predicato il Vangelo: lo ha incarnato. Da solo. Nella tempesta. Su una barca che rischiava di affondare. E ha detto: «Su questa barca ci siamo tutti».

Questo era il suo stile. Semplice, accessibile, ilare. Uno stile che costruiva ponti, non muri. Così che i tanti fossati che scaviamo tra di noi potessero trasformarsi da luoghi di separazione a cammini di incontro.

Il programma di papa Francesco era chiaro, basato su tre pilastri: misericordia; fratellanza; pace.

Come Gesù

Papa Francesco vedeva la Chiesa come un «ospedale da campo», un luogo di guarigione, un porto a cui tutti potessero approdare anche solo per un attimo. Perché la misericordia non sta chiusa nei palazzi, non si lascia rinchiudere nelle belle parole di libri e documenti, ma va in cerca dell’umano ferito e delle ferite dell’umano. La misericordia è la fede che si lascia guidare dallo Spirito, che non sai di dove viene né dove va – ma ne senti la voce che ti ingiunge di seguirlo.

Desiderava una Chiesa così, docile allo Spirito, errabonda lungo i sentieri delle vite delle persone e lungo i dirupi della storia umana. Per questo ha sottolineato ripetutamente che i sacramenti sono destinati alla cura, alla consolazione, alla riconciliazione – là dove sull’umano ferito spira leggera la brezza dello Spirito.

In nome del Dio che non conosce misura nell’amore, ha spalancato le porte della Chiesa anche a coloro che erano lontani. In nome del Dio che genera alla vita, ha aperto una nuova prospettiva per il creato, per l’ambiente e per la consapevolezza che la questione sociale e quella ecologica sono strettamente intrecciate fra di loro. Il grido dei poveri fa tutt’uno con quello della Madre Terra.

Come Gesù anche noi dovremmo lasciarci toccare dalle preoccupazioni e dai bisogni delle persone. Come Gesù anche noi dovremmo diventare guaritori che fasciano le ferite degli altri.

Come Gesù anche noi dovremmo essere prossimi agli altri, parlare con loro cuore a cuore, essere presenti gli uni per gli altri. Come Gesù anche noi dovremmo essere segno tangibile della vicinanza, tenerezza e coraggio di Dio.

Tutti fratelli e sorelle

Francesco ha parlato della «grande famiglia umana»; e ha impegnato le religioni, cattolicesimo e islam, a essere le cellule della sua edificazione globale. Come vescovo di Roma, ha esortato gli stati europei a prestare maggiore attenzione e impegno verso coloro che cercano protezione abbandonando i loro luoghi natii.

Ha letto la parabola del Buon Samaritano non solo in chiave individuale, ma anche collettiva. Non è solo il singolo che deve prendersi cura del prossimo che giace, percosso, sui margini della strada; anche i popoli forti devono prendersi cura di quelli feriti, sfruttati e oppressi.

A Venezia ha detto: «Il potere non è nelle mani dei grandi di questo mondo, ma nel popolo». È andato in prigione. Ha lavato i piedi ai detenuti. Ha fatto costruire docce per i senza tetto in piazza San Pietro.

Francesco non voleva una Chiesa come istituzione del potere, ma come comunità di dedizione che si prende cura di tutti e tutte – che ha a cuore ogni persona. Una Chiesa che non ha paura di scendere in strada, di sporcarsi col fango della vita umana, che non ha paura di uscire ammaccata dagli incontri con la vita reale della gente.

Voleva una Chiesa in uscita, ascoltatrice della voce dello Spirito e noncurante della destinazione a cui essa la conduce – e non una Chiesa che ruota solo intorno al proprio ombelico, ammaliata dall’immagine speculare di sé.

Shalom

Papa Francesco non ha mai inteso la pace come un semplice ideale, ma come un compito che viene dal profondo, dall’opera dello Spirito Santo. Come nel vangelo di oggi, dove ai discepoli barricati in una stanza per paura, Gesù dice «la pace sia con voi». Ha ripetuto più volte che «lo Spirito è il vero protagonista della Chiesa, noi siamo solo strumenti nelle sue mani».

Per questo ha pregato instancabilmente affinché lo Spirito ci insegni a percorrere vie di dialogo, perché la pace non nasce dai trattati ma dal cuore, dal mettersi l’uno di fronte all’altro ascoltandosi a vicenda, dal silenzio della preghiera.

Quando cadono le bombe, quando i popoli si lacerano, quando regna la violenza, secondo Francesco un pastore non può rimanere in silenzio. Lo Spirito di Dio ci spinge a ribellarci contro la guerra e l’odio, ci spinge a resistere ad oltranza alla violenza, ci spinge a impegnarci per la vita nel e del mondo.

Francesco credeva nella forza dolce ma potente dello Spirito, portatrice di uno scompiglio capace di abbattere tutti i muri: quelli tra i popoli; quelli tra le confessioni; ma anche quelli presenti nei nostri cuori.

Per lui la preghiera per la pace non era una fuga dal mondo, ma una rivoluzione silenziosa, perché lo Spirito vuole la vita non la morte.

E così vedeva per la Chiesa il compito di essere luogo di pace – non attraverso il potere, ma mediante la misericordia, attraverso l’opera dello Spirito che riconosce in ogni persona l’immagine di Dio.

In principio la gioia

Ed ora che la sua vita tra noi è terminata, sentiamo il dovere di gettare lo sguardo a quel principio misterioso che ha attraversato tutto il suo vissuto: la gioia. La gioia che viene dal Vangelo e la gioia per il Vangelo.

Si è detto molto su papa Francesco in questi giorni, ma quasi tutti hanno dimenticato questa dimensione fondamentale della sua fede e del suo ministero di vescovo di Roma. Eppure lui ci è tornato sopra molte volte, dopo avercela fatta assaporare con la sua prima esortazione apostolica Evangelii gaudium.

La gioia non è un sentimento estemporaneo, ma una disposizione fondamentale del cuore che ha incontrato il corpo della dedizione di Dio, che è stato toccato da esso. Quando questo accade, la gioia che salva te la porti in giro appiccicata al tuo corpo ovunque tu vada, come accade per il lebbroso guarito nel vangelo di Marco.

Papa Francesco desiderava una Chiesa la cui fede fosse imbevuta da cima a fondo da quel mistero dei misteri di cui parla Chesterton alla fine del suo libro Ortodossia: «Eppure c’è qualcosa che Gesù ha tenuto per sé. Lo dico con reverenza (…). C’era qualcosa che Egli nascondeva a tutti quando salì sulla montagna a pregare. C’era qualcosa che Egli celava costantemente attraverso improvvisi silenzi o frettolosi isolamenti. C’era una cosa che era troppo grande per Dio per mostrarla a noi mente Egli camminava sulla nostra terra – e io talvolta ho immaginato che fosse la sua gioia ilare».[1]

Una Chiesa per il terzo millennio

Questa gioia evangelica della fede è la forza che dà forma a una Chiesa sinodale – come comunità in cui tutti camminano insieme, non come istituzione di potere dove alcuni decidono dall’alto.

Per papa Francesco il Sinodo non era solo un evento a un incontro, ma uno stile. Lo stile di Gesù: ascoltare, discernere, cercare insieme la via. Essere sinodali significa prendersi sul serio gli uni gli altri, comprendere l’altro come inviato da Dio e scoprire insieme ciò che lo Spirito Santo vuole dirci oggi.

È la forma fondamentale della Chiesa, dice Francesco, perché solo così il popolo di Dio può crescere: nella verità, nella libertà, nella responsabilità – ma, soprattutto, nella gioia di essere cristiani.

Questo è confortante, perché significa che nessuno deve camminare da solo, che la Chiesa può essere un luogo in cui ogni voce conta e viene ascoltata, ogni ferita è vista e viene lenita. Ma ci chiama anche a seguire: cammina insieme a noi. Ascolta. Non chiedere prima: chi ha ragione? Ma, piuttosto: dove ci chiama lo spirito, insieme – mai senza l’altro?

***

Ora papa Francesco se ne è andato. Il lunedì di Pasqua alle 7.35. Nel momento luminoso della nostra fede nella risurrezione. Lui, il papa dei poveri, dei deboli, degli ultimi, proprio di quelli che nessuno vuole: loro erano a casa sua.

E il cerchio di una vita si chiude nel luogo che amava come nessun altro: Santa Maria Maggiore a Roma. Ci andava prima di ogni viaggio. Ci andava per trovare la pace. Per stare con Maria. Lì pregava. Lì piangeva. Lì trovava quel conforto che lo confermava nella gioia della fede. E ora riposa lì in pace.


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