Missione di Francoforte Centro – Intervista a Don Matteo Laslau a un anno dal suo arrivo nella comunità.
È stato un anno di pandemia. Quali sono stati gli ostacoli da sormontare?
Sono arrivato il 1° settembre e inserirsi in una comunità in tempo di pandemia non è stato per niente facile. Il disagio principale era l’impossibilità di incontrare le persone. Quella prima conoscenza, quel primo incontro con il nuovo parroco che entra in comunità è venuto meno. Grande è stata tuttavia la curiosità della gente e la ringrazio. Nonostante la pandemia il numero delle partecipazioni alla liturgia è stato notevole e abbiamo dovuto purtroppo dire no a tante persone che però ci hanno seguito con i mezzi digitali. C’era inoltre il disagio che riguardava la gestione reale della comunità: dover fare tutto per telefono, da casa, non è stato facile, soprattutto quando si tratta della vita sacramentale delle persone. È stato difficile sentirsi impotenti di fronte alle richieste di aiuto della gente. Insieme al team pastorale abbiamo cercato di rispondere al meglio a queste esigenze secondo i criteri che ci sono stati dati in tempo di pandemia.
Quali sono stati invece gli aspetti positivi?
Ce ne sono stati tanti. I ritmi e i tempi silenziosi sono stati in realtà molto eloquenti e, pur nel timore e nell’incertezza nella pandemia, hanno favorito a mio avviso un’apertura del cuore, una comunicazione verbale più che gestuale che ha saputo veicolare messaggi importanti. Da questo punto di vista ritengo che la pandemia sia stata un grande dono perché ci ha permesso di comprendere quanto a volte parliamo molto e comunichiamo poco. Oltre al benvenuto della comunità ho sentito il sostegno e l’accoglienza del decano Johannes zu Eltz e anche di rappresentanti di altre chiese.
La Missione di Francoforte Centro è immersa nella complessa realtà cittadina. La pandemia ti ha dato l’occasione di sviluppare strategie per attirare nella Chiesa anche chi finora non ci vede un punto di riferimento, pur avendo un bisogno di spiritualità?
Questa domanda riecheggiava già da molto tempo e la pandemia ha offerto una grande occasione. Personalmente, anche come ecclesiologo, ritengo che ci sia un grande bisogno di spiritualità, la gente cerca delle risposte per la propria anima, indifferentemente dal credo religioso che professano, se lo professano, ma questa profondità la ricercano. Notiamo con rammarico che molti, anche nati all’interno della chiesa, pensano di non poter trovare nella chiesa di oggi risposte a questa domanda di spiritualità o ad altre domande di carattere personale. È la discrepanza avvenuta molto forte negli ultimi decenni nella chiesa, “Dio sì, la chiesa no” come diceva il cardinale Ratzinger. Questo ha portato a mio avviso a una seconda discrepanza “Cristo sì, ma il figlio di Dio, crocifisso, no”, una presa di distanza da quello che molti ritengono limiti la libertà di esprimere la propria fede. In realtà sappiamo con certezza che Dio non ci limita, che la chiesa non ci limita e che ciascuno possa vivere in pienezza la propria vocazione, ossia la pienezza della persona, la pluriforme manifestazione della propria chiamata alla santità, a questa relazione intima con Dio e che si esprime nelle varie realtà oggi portate alla luce, intendo le coppie di fatto, tutto il mondo dell’affettività. A me non tocca riflettere sulle tipologie espressive della persona quanto piuttosto sopperire a questo bisogno di Dio, aperto nel cuore di tutti.
Per me è stato sorprendente individuare strategie e strumenti per corrispondere a questo bisogno delle persone. Prima di tutto l’utilizzo dei mezzi di comunicazione che, come Chiesa, non abbiamo mai utilizzato come in questo tempo di pandemia. Ho cominciato con lo scrivere una riflessione, una preghiera ogni giorno ai gruppi parrocchiali attraverso whatsapp; col fare in modo che i fedeli seguissero la celebrazione eucaristica su youtube, su facebook; poi ho rifatto daccapo il sito della comunità dando la possibilità di scrivermi per una richiesta di aiuto. Si sono costituiti parrocchiali, i giovani adulti della Ribellezza, il coro e il mondo della terza età, che ho voluto chiamare Adultissimi (vedi foto). Un altro input è stata la collaborazione con il consolato, gli incontri con il console e con i vari rappresentanti della comunità. Questo ci ha aiutato a create quelle sinergie, quelle complicità che hanno contribuito a dare un volto nuovo a questo esprimerci nella fede e comprendere la persona indipendentemente dalla religione.
Quindi una chiesa inclusiva, una chiesa accogliente?
Per l’esperienza avuta in Svizzera parlo di inclusione, un concetto che scende alla base della persona e che diventa ricchezza per chi accoglie e per chi è accolto. È una mia idea che ho condiviso con Heribert Schmitt, (n.d.r. referente diocesano a Limburg per le comunità di altra madre lingua) già lo scorso anno. Negli ultimi anni si è parlato molto delle comunità di altra madre lingua che devono integrarsi nella cultura e nella società. Quando parlo di inclusione, intendo assimilare tutto quello che mi serve per potermi inserire nel tessuto sociale del luogo in cui vivo per il quale devo avere rispetto però non devo sentirmi straniero. Questa inclusione vale anche nella chiesa, ovvero nella possibilità di esprimere la fede maturata nella storia, nella cultura, nella vita personale di ciascuno. Questa è la cattolicità della chiesa.
Qual è il rapporto fra le comunità di altra madrelingua e la chiesa locale alla luce dell’inclusione?
La persona è al centro, quando perdiamo di vista la persona perdiamo tutto. Qui non si tratta di integrazione di sistemi, metterei la persona al centro con i suoi valori, i suoi pregi e i suoi difetti. La chiesa tedesca ha una grande tradizione, una lunga storia fra alti e bassi come per tutti e credo che per noi italiani sia un ambiente arricchente anche semplicemente ricordando che in questa terra sono nate una fra le più belle iniziative che poi hanno portato al Concilio Vaticano Secondo, intendo i grandi movimenti, quello biblico, quello mariano, quello ecumenico. Tutte queste cose sono per noi di enorme bellezza e valore. Lo ha detto anche Gesù “guai scandalizzare questi piccoli”, ma questi piccoli siamo anche noi, che veniamo da un’altra tradizione che non va messa al bando ma è un modo meraviglioso di esprimere la fede. È stupendo contemplare un meraviglioso prato di fiori, non selezionati in base a quale colore desideriamo, ma variopinti, quel prato selvatico voluto e fatto crescere dal Signore. Questo deve essere il nuovo volto della chiesa: permettere davvero che ognuno possa esprimere se stesso.
Manuela Martins, assistente pastorale, è andata recentemente in pensione e state cercando una persona che prenda il suo posto. Che valore ha per te il lavoro con il team pastorale?
La collaborazione di un team è per me fondamentale, è indispensabile. Lavoriamo benissimo insieme, sia con la nuova segretaria, Géraldine Italiano che ringrazio, sia con Valentina Perin, referente pastorale, figura straordinaria all’interno della comunità che permette di essere un anello di congiunzione fra gli anni passati e con noi che siamo operativamente nuovi.
Questo è il cuore del team da allargare ai referenti di ciascun gruppo. Insieme al consiglio pastorale sono il termometro per cogliere e dare risposta a tutte le esigenze della comunità. In particolare sono grato della proficua collaborazione con la presidente del Consiglio pastorale, Katia Letizia, che mi consente di conoscere le diverse realtà associative in cui sono presenti gli italiani. Poi ci sono padre Beutler, noto biblista, che tiene gli incontri biblici, don Piero Bartalesi con il gruppo degli Adultissimi, le suore di Madre Teresa di Calcutta e altri sacerdoti presenti sul territorio. Parafrasando Sant’Agostino, appena eletto vescovo, direi “Per voi sono parroco con voi voglio essere cristiano”. Tutti loro aiutano me a essere sacerdote, con i miei limiti e difetti. Questa è l’immagine viva della chiesa che amo e che credo che anche le persone amino e della quale vogliano fare parte.