Chi può chiamarsi fuori?

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Virus e vaccino
Il coronavirus e il vaccino ©Gerd Altmann. Pixabay

Il vaccino anti Covid tra libertà individuale e responsabilità collettiva. Quale idea di libertà? – Che cosa ci insegna la pandemia? – Conversazione con Antonio Autiero, teologo morale. (PC)

Il papa ha detto che dalla pandemia usciamo insieme, con il noi, non con l’io. Che cosa vuol dire? L’atteggiamento di fronte alla scelta di vaccinarsi o no sembra una cartina di tornasole della società, in particolare il non volersi vaccinare è rivelatore di paure di ipotetiche conseguenze collaterali a lungo termine sulla salute, che il vaccino sia una forma di controllo e questo ci porta al tema della libertà e della conoscenza.


Antonio Autiero

Antonio Autiero è teologo. Dal 1991 al 2013 ha insegnato teologia morale prima all’università di Bonn poi a quella di Münster nella Facoltà di teologia cattolica. Ha studiato filosofia e teologia a Napoli, sua città Natale e dove fu ordinato sacerdote nel 1972 e a Roma. Fa parte, tra l’altro, della ZES, la Commissione etica centrale del governo tedesco per la ricerca sulle cellule staminali. È autore di numerose pubblicazioni in tedesco e in italiano. Recentemente ha curato con la teologa Marinella Perroni il volume: Maschilità in questione (Queriniana, Brescia 2021).


Lei tempo fa, in una intervista a “Christ in der Gegenwart” (03/2021) Lei ha detto di ritener sbagliato l’obbligo del vaccino dal punto di vista del diritto ma non dal punto di vista morale. Esiste un obbligo morale?

La sfera giuridica e la sfera morale non sono due sfere in contrapposizione ma devono essere capite anche nella distinzione degli ambiti e delle modalità di azione. Le finalità che lo Stato vuole raggiungere devono essere sempre ben bilanciate con gli strumenti che si impiegano per arrivarci.

Se parliamo di vaccini, dal punto di vista giuridico e politico, l’obbligo è sproporzionato ed inopportuno in relazione alle finalità che lo Stato si propone di raggiungere. Lo Stato non è un ente di controllo della vita dei cittadini, questo sarebbe uno Stato di polizia.

Qual è la finalità che ci si propone con la campagna vaccinale sullo sfondo della pandemia che ha sorpreso e scombussolato le vite di tutti noi? È quella di rendere la vita difficile al virus su scala globale, di ridurgli le possibilità di circolare e di espandersi, e di sfuggire al controllo attraverso le modificazioni, le famose varianti. Ci stiamo confrontando con una forma di invasione della vita attraverso entità virali che dobbiamo mettere fuori dal nostro recinto vitale. Chi può sottrarsi a questa finalità? Non entriamo ancora nella questione su chi vuole vaccinarsi e chi non vuole vaccinarsi, ma prima di tutto domandiamoci: chi può dirsi fuori da questa finalità di protezione della vita da un attacco, da una minaccia che viene dal virus? Quando poniamo questa domanda entriamo già nella scala di pensiero della sfera morale.

„Chi può dirsi fuori da questa finalità di protezione della vita da un attacco, da una minaccia che viene dal virus?“

Dal punto di vista morale, l’etica dello stare al mondo è molto più complessa, molto più articolata che non l’etica dei comportamenti del singolo e ci dice che la vita è un bene che è partecipato, non è un bene individuale. Se fosse un bene individuale dovrei chiedermi dove sono andato ad acquisirmelo e lo sappiamo benissimo che la vita non ce la siamo acquisita, non siamo entrati noi nella sfera della vita ma è la vita che ha aperto le porte e ha detto ci sei anche tu e sei un vivente. Se sei un vivente, sei un partecipe alla comunità dei viventi, e la prima espressione di partecipazione nei confronti della vita è la sensazione fondamentale di essere parte, una singola parte, e quindi dobbiamo tenere conto che ci sono altre parti. Quando parliamo di un‘etica della partecipazione al bene della vita parliamo anche di un’attenzione alla sfera delle altre parti.

In questo orizzonte si pone la domanda circa il rapporto fra libertà individuale e la responsabilità collettiva, quella che ciascuno di noi ha come parte di un insieme. Molti rifiutano il vaccino perché vogliono affermare la propria libertà individuale. Quali sono i limiti della libertà personale?

Parto dall’idea di fondo che sono partecipe della vita per cercare di tenere un orizzonte di comprensione il più vasto possibile ed evito appositamente l’espressione “dono della vita” che ci rimanda a un discorso di fede. Uno può anche non essere d’accordo sul fatto che la vita ci sia stata donata, ma non sull’evidenza di essere parte della vita nell’entourage familiare, sociale, ecologico… Se esci e una mosca ti molesta al naso è perché siete in due a vivere. Si deve avere questa consapevolezza di fondo di essere parte e quando si è parte bisogna rispondere della convivenza con le altre parti. Questo tema ci porta direttamente sulla scia della responsabilità.

Visto che stiamo parlando di vaccinazioni allora questo ci porta al senso morale di vaccinarsi. Si può parlare allora di obbligo morale di vaccinarsi?

Il tema dell’obbligo morale l’abbiamo ben capito quando decenni fa abbiamo cominciato a riflettere sui trapianti d’organo chiedendoci: “lo Stato può obbligarmi a donare gli organi?”. Donare gli organi può essere oggetto di un’obbligazione, di un dovere? Anche qui l’equilibrio di pensiero più consapevole e più adeguato è quello di dire: non si può obbligare uno a donare gli organi con lo strumento giuridico, che è un’imposizione, ratificato da una legge e controllato da sistemi sanzionatori. Però si può ritenere che è un dovere morale che è diverso da un dovere giuridico. L’obbligo morale, o il dovere morale o la responsabilità morale risponde invece alla logica, quella di essere parte di un flusso di vita che mi precede e che sta dopo di me. Ovviamente l’obbligo morale ha un altro colore, un’altra forza vincolante. In fondo qual è il controcanto di questo obbligo, quale sarebbe l’alternativa? Che io non sia più parte di questa vita? Che cosa sono allora? Sono un asociale, un apolide del tessuto umano, una monade, un essere isolato che vive sul suo pianeta?

„Tutta la nostra vita è organizzata reticolarmente“

D’altra parte noi facciamo l’esperienza sempre di essere parte di un unico pianeta, tutta la nostra vita è organizzata reticolarmente, siamo in rete in tutti i sensi. Noi oggi utilizziamo nel linguaggio tecnologico molto di più espressioni come “stare in rete, mi metto in rete”, ma in fondo è quando nasce la cellula nuova dall’embrione che si entra a tutti i livelli in un sistema reticolare, quindi l’obbligo è proprio quello di saper stare in questa rete.

Calando il discorso in una dimensione sociale, si potrebbe dire che le libertà individuali che noi godiamo nella società, ci sono proprio grazie a questo tessuto sociale complesso e questo mi dà delle responsabilità nei confronti della società. Se affermo solo le mie libertà individuali misconosco il fatto che mi sono date perché c’è questa società, c’è questa rete.

Che è sostanziale e fondamentale, non è un fatto aggiuntivo, non abbiamo fatto il “patto sociale”. Nella storia della filosofia questa idea di patto sociale ha avuto una grande importanza ed è utile anche che sia stata elaborata una categoria del genere perché faceva sì che la percezione del nostro essere al mondo non fosse una percezione di soggetti individuali, sconnessi, bensì di soggetti inter-relazionali. Quindi anche quando riflettiamo sul senso della libertà, riflettiamo su qualcosa che dobbiamo cautamente tenere distante dall’astrazione che radicalizzerebbe il concetto di libertà fino a farlo diventare un niente, un concetto astratto e vuoto.

„La libertà sostanziale si declina poi di volta in volta nelle singole espressioni di libertÀ“

Lei ha usato il plurale, dicendo “le libertà” ed è giusto, perché esistono forme sempre concretizzate di libertà, per così dire la sostanziale libertà dell’essere umano, creatura razionale e relazionale, si declina di volta in volta nelle singole espressioni di libertà. Queste libertà al plurale fanno capire che noi abbiamo una capacità di essere liberi. Chi nega in linea di principio la libertà, come i deterministi di ogni tempo, pensa che l’essere umano sia una scatola di alchimie o di collegamenti chimici o biogenetici e risolve il problema della libertà radicalmente, negandola. Partendo quindi dal fatto che si riconosce all’essere umano la sua capacità, in base a ragione e relazione di essere un soggetto libero, la sua libertà va sempre declinata, incarnata, contestualizzata, concretizzata nello specifico della sua condizione.

Noi viviamo di libertà condizionate. Il semplice fatto di essere io maschio e lei donna è una inquadratura, una contestualizzazione, qualcuno potrebbe dire che è un condizionamento delle nostre libertà, lei può fare alcune cose che io non posso fare e viceversa. Lasciamo ora perdere il discorso gender e della costruttività dei generi che ci porterebbe altrove. Un altro esempio, gli occhiali. L’occhiale è uno strumento, è un artefatto, è una artificiosità che contrasta con la natura dell’occhio che vorrebbe essere libero. Abbiamo il condizionamento della libertà. Ma se me li tolgo gli occhiali la mia libertà di vedere è molto ridotta. Vede che alcune limitazioni a questa presunta libertà generica e astratta, non sono a scapito della libertà ma sono a condizionamento positivo, la rendono condizione di possibilità.

Le condizioni spazio-temporali nelle quali siamo inseriti, sono le condizioni del nostro agire, pensare e essere liberi. Mi viene in mente la canzone di Giorgio Gaber, “Libertà è partecipazione”.

Ecco vede torniamo lì, alla partecipazione, che è un terreno più fecondo, anche umanamente più incoraggiante perché i presunti miti di una libertà incondizionata, esclusiva e non inclusiva, cioè de-partecipante e non partecipativa, ci portano a perdere fiducia nell’umano. Chi urla per strada che vuole una libertà senza limiti è perché è sfiduciato nell’umano.

„la mia libertà la metto nell’insieme di un gioco collettivo, sociale“

Se vogliamo concretizzare adesso sul fatto che ci tocca da vicino, cioè come gestire la crisi pandemica, vorrei ricordare un fatto. Lo scorso autunno il direttore della Stampa, Massimo Giannini, si ammalò di Covid-19, non eravamo nell’epoca dei vaccini, eravamo però nel tempo dove una presentazione falsificante intorno al covid era già imperante: “Non vi preoccupate, è una malattia come le altre, non esiste, l’hanno creata, l’hanno fatta apposta”. Massimo Giannini si riabilitò bene dalla malattia ma dopo crisi severe e in un’intervista aveva utilizzato l’espressione che aveva destato un certo scalpore: “Se vogliamo contenere il virus, dobbiamo cedere delle quote di libertà”. Questa espressione è molto interessante, la trovo molto plastica, economicista, pur tuttavia potrebbe avere una sfumatura negativa: cedere qualcosa significa sempre un po’ perderla. La sua metafora efficace ha però un sapore negativo, il “cedere”, che poteva irritare la gente, “non voglio cedere niente, io voglio mantenere tutto”. Qui non si tratta di sottrarre qualcosa al mio potenziale di libertà per sprecarlo, qui si tratta di contestualizzare e dimensionare, dare uno scopo nuovo alla mia libertà. La mia libertà la metto nell’insieme di un gioco collettivo, sociale, di una dinamica della costruzione del sociale al punto tale che temperando le mie smanie di libertà e facendo diventare la mia libertà contestualizzata, la rendo  più rispondente a un fine collettivo che salva te e che ritorna anche su di me fino a diventare un superamento globale della pandemia. Questo è il contesto vero della nostra libertà: una libertà che deve mettersi in gioco capendo io e l’altro, io e il noi. Ci è stata sbattuta in faccia la limitatezza, tutta la nocività, la tossicità dell’individualismo esasperato, dell’io ipertrofico. Veniamo da una buona tradizione di pensiero, di vita, di filosofia che ci dice che noi siamo parte, l’io c’è ma è nel noi.

Fatto fermo questo punto, c’è chi si sottrae a questa evidenza e preferisce credere che esista una élite umana che controlla, che gestisce, una forma di potere che ci tiene in mano. C’è chi rifiuta il vaccino per paure legate a strane teorie complottistiche, di controllo o addirittura di distruzione programmata delle persone ad opera del vaccino. Sembrano le superstizioni del XXI secolo.

Questo modo di pensare ha un errore di carattere cognitivo molto forte perché si enuncia il pericolo che ci sia un potere su di noi che ci vuole manipolare e lo si fa consegnandosi a una visione di qualunquismo di carattere non critico in modo tale da prestare fede ciecamente a chi ritiene che sia così. Il circolo diventa vizioso, ci ribelliamo verso un potere che ci domina facendoci dominare da una opinione che diventa non più condivisa, ma solo da credere. L’impressione è che siamo in un ritorno, in senso vasto, di fideismo, non più pensare ma credere, non più discutere criticamente ma sorbire parole.

Invece di esercitare il senso critico ci si abbandona a uno scetticismo totale, deflagrante e decostruttivo del pensiero.

Senonché lo scetticismo reale è quello che sospende il giudizio, qui si va in strada per rivendicare questa verità, la verità che gli altri non vedono e cioè che siamo dei dominati, dei burattini. Questo non è costruttivo della salute pubblica, del bene comune.

C’è chi rifiuta il vaccino per paura di effetti sulla salute. Ma Lei ci ricorda che ogni azione porta con sé rischio, fa parte della vita valutare i rischi. Solo così arriviamo ad assumerci le responsabilità per noi e per gli altri. Ma c’è anche il discorso di una forma una mancanza di fiducia verso la scienza, verso le istituzioni, dove l’affermazione scientifica viene messa sullo stesso piano dell’opinione sofistica. Che valore ha la fiducia per tenere insieme il tessuto sociale e partecipativo della collettività?

Tanti atteggiamenti mostrano una sorta di sfiducia nell’umano; si potrebbe parlare di un’epoca di pessimismo antropologico. Le espressioni di questo pessimismo antropologico vengono di volta in volta concretizzate in sfiducia nella scienza, sfiducia nell’argomentazione dell’altro.

La fiducia è fondamentale per mettersi in ascolto delle ragioni e ragionamenti. A differenza della fede, della religione che non pretende di dimostrare, l’etica è una disciplina filosofico-teologica, è una scienza che si serve di ragionamenti e l’argomentare in etica è fondamentale.

Chi rinuncia ad argomentare lo fa in definitiva mettendosi fuori da questa osmosi collettiva del pensiero che costruisce forme condivisibili di acquisizione e nessuna forma condivisibile è mai eterna. Quando condividiamo una conoscenza non ci ritiriamo dal compito di sottoporla a ulteriore critica e verifica: questo è tipico della scienza. Noi confondiamo la fiducia nella scienza con la fiducia nel sapere della fede. Davanti alla scienza non si chiudono gli occhi, si aprono le orecchie, si apre la bocca, si ascolta e si parla, avendo capacità di ascolto e di parola, ma se sei sordo, non ascolti e se sei muto non parli.

„La fiducia è fondamentale per mettermi in ascolto delle ragioni e dei ragionamenti“

Questa è una forma molto concreta di pessimismo antropologico, ma in fondo è la sfiducia in noi stessi che ci porta a questo. E come si chiama la sfiducia in noi stessi? Si chiama paura. Le persone che cadono nella trappola della paura hanno azzerato le risorse di fiducia. E dove sono le risorse di speranza? In realtà le hanno perdute, vi hanno rinunciato. Ecco perché al di fuori dell’orizzonte religioso, dove la speranza è una virtù teologale, la speranza è una virtù sociale di sconfinamento nel perimetro di vita dell’altro per poter dire: mettiamoci insieme, affinché ci sia possibilità di futuro. La paura porta al confinamento, mi ritiro, mi chiudo in me stesso perché non vedo futuro. Nelle metafore con le quali abbiamo a che fare, con il vaccino, il rifiuto di farlo, perché lo riteniamo un attentato alle libertà individuali, noi in fondo, ce lo dobbiamo chiedere: stiamo giocando ad auto confinarci, ad auto restringerci in un perimetro stretto che si chiama paura o ad espanderci, sconfinando verso gli altri e costruendo solidarietà? Questo è il gioco.

Infine come valuta l’obbligo indiretto a vaccinarsi pena l’esclusione dalla vita sociale?

Potrebbe sembrare una strategia subliminale la proposta di passare dalle tre g (geimpft, genesen, getestet, ossia vaccinato, guarito testato) alle due g (geimpft und genesen). Un tentativo di fare rientrare dalla finestra, quello che non si vuole far accedere dalla porta, cioè un obbligo alla vaccinazione.

Ritengo che qui non si tratti di una strategia occulta ma di un mezzo efficace per raggiungere il fine. Spesso perdiamo di vista la finalità che è quella di prendere questo essere virale e mortifero e metterlo alla sbarra. Ritengo che si possa adottare quindi una strategia di attacco, di impatto forte e che questo non sia una limitazione di libertà. Questa forma guarda alla tutela di coloro che, come esseri relazionali, non si sottraggono alla dinamica di partecipazione. Un esempio banale: se lei ha la patente di guida e io no, il fatto che lei possa guidare e io no è una limitazione della mia libertà? Se lei conosce il cinese e va in Cina e conversa con cinesi, mentre io non conosco il cinese e non posso parlare con loro, è una limitazione della mia libertà? La libertà va sempre considerata anche in base alle risorse che noi abbiamo messo in atto. Ora la collettività, gli stati, gli scienziati gli sforzi li hanno fatti, tremendamente in questo anno di alacre lavoro per metterci in mano uno strumento di contrasto alla pandemia. E allora perché questo dovrebbe essere considerato una limitazione di libertà? Al contrario lo Stato mi ha dato lo strumento: il suo uso è al servizio, non a discapito, della mia libertà. Adesso ci chiediamo se far pagare i test o no. Rendiamoci conto: se c’è uno strumento migliore, come il vaccino, che magari uno rifiuta, pur non avendo motivo di rifiutare, se non in base a una scelta di libertà, allora la libertà di mettere mano al portafoglio, per pagare il test, la devo esercitare perché altrimenti limito la libertà di ogni contribuente, nell’aggravare la spesa pubblica. Si vede come la libertà degli uni sta costando alla libertà degli altri. Quando una libertà degli uni arreca danni o comporta pesi per gli altri, significa che qualcosa non funziona.