Conversazione con suor Milva Caro, missionaria scalabriniana e referente diocesana per le comunità di altre lingue e riti della diocesi di Rottenburg/Stuttgart.
- Di Paola Colombo.
Dal 2023 suor Milva Caro, scalabriniana, è referente diocesana; prima era stata otto anni Superiora provinciale delle suore scalabriniane a Piacenza. A lei è subentrata suor Giuliana Bosini. Il suo incarico in diocesi è un ritorno fra la gente di emigrazione in Germania. Alla riunione diocesana del personale pastorale delle comunità italiane suor Milva caldeggia la partecipazione di rappresentanti delle comunità negli organismi della diocesi dove non solo si parla ma si decide. Alla riunione non c’è tempo per un’intervista. Ci diamo appuntamento per una conversazione online di lì a pochi giorni.
In che cosa consiste il tuo lavoro, suor Milva? Che cosa ci fa una suora missionaria scalabriniana in diocesi?
Il mio lavoro da suora missionaria scalabriniana si inserisce in quello della diocesi. Ciò che anima invece il mio lavoro è ciò che diceva Scalabrini (Giovanni Battista Scalabrini, vescovo di Piacenza, canonizzato nel 2022, n.d.r.) e cioè che l’immigrazione non è un fenomeno temporaneo. La società si va costruendo con i migranti e non senza. Sono parole che Scalabrini disse oltre 100 anni fa e che sono più che mai attuali. L’immigrazione c’è sempre e il migrante, dove arriva, ha bisogno di creare un luogo che sia casa (una Heimat). L’immigrazione non è una cosa passeggera e i migranti, nella maggior parte dei casi, non rientrano nel paese di origine. Tener conto di questo è fondamentale. Quindi vedo il mio impegno nel creare una nuova Heimat (Scalabrini parlava di patria) per i migranti. Questi sono i punti fermi per il mio lavoro: insistere sull’inserimento in questa Chiesa, nella società, sulla partecipazione. Più ci si sente a casa più si sta bene e non ci si sente stranieri anche se in fondo in fondo, un po’ lo si resta sempre.
Quindi ogni piccolo passo in più che si riesce a fare nell’accettazione reciproca costruisce sempre di più la nuova Heimat. Sono i piccoli passi fatti con la lingua, con la scuola, lo sport, il lavoro e anche nella comunità ecclesiale. Il mio insistere sull’andare incontro all’altro è proprio per potersi sentire a casa; questo discorso lo faccio anche negli incontri coi tedeschi. Certamente è faticoso perché si deve sempre andare incontro e ci si chiede perché “gli altri non fanno come faccio io?” oppure “sono qui da vent’anni e ancora devo chiedere la sala per gli incontri?”. I tedeschi invece dicono: “Sono arrivati vent’anni fa e ancora dobbiamo tener conto di loro; sono qui da trent’anni e hanno bisogno ancora di una messa in italiano”. Tutto questo è molto faticoso ma venirsi incontro reciprocamente è l’unica strada possibile.
Sr. Milva Caro, sei nata in Germania da genitori emigrati. La migrazione l’hai vissuta in prima persona. Come tutte le persone che vivono in luogo diverso da quello da cui provengono hai una identità composita. Hai fatto la postina e a un certo punto a 27 anni sei entrata nella congregazione delle Suore Scalabriniane. C’è un filo rosso fra la tua biografia e la tua vocazione?
Il mio essere migrante ed esserlo stata fin dalla nascita è il mio motore: so di ciò di cui parlo. Ho vissuto in Italia durante la formazione e negli ultimi anni, forse 12 anni in tutto. Sono sempre stata in Germania e parlare di immigrazione è anche un po’ parlare di me. L’aver conosciuto le Suore Scalabriniane è stato determinante. Il loro lavoro è proprio stare affianco a persone che hanno una identità come la mia, un po’ tedesca, un po’ italiana. Ci stavano accanto e cercavano di darci quella casa di cui in fondo noi migranti siamo sempre alla ricerca.
A un certo punto ho detto sì al Signore, a questa forma di vita e a questo mondo dell’emigrazione, mi voglio mettere a disposizione del Signore perché, la speranza a cui sono chiamati i migranti in terra straniera l’ho sperimentata e vorrei anche farla sperimentare agli altri.
Hai fatto la formazione teologica a Bonn, in Italia e poi ti sei occupata di pastorale giovanile. Ci puoi raccontare?
Mentre che studiavo teologia a Bonn lavoravo nella Comunità italiana di Solingen. Dopo la teologia ho preso la licenza dai Salesiani a Roma. La mia tematica erano i giovani di seconda generazione.
Tornata in Germania, questa volta nella diocesi di Essen, abbiamo iniziato una pastorale interculturale giovanile. Sono molto contenta perché questo ufficio esiste ancora. L’idea è creare spazi di comunione tra i giovani di varie provenienze perché i giovani sono quelli che faranno la nuova società.
Parlare di pastorale interculturale non è per te un novum. Nuovo è invece il documento dei vescovi tedeschi Auf dem Weg zu einer interkulturellen Communio che abbiamo avuto modo di presentare sul questo sito (Il testo dei vescovi per una comunione interculturale: presupposti, fonti teologiche e i tre „più“ | Delegazione-mci). Questo testo è nuovo non solo perché fresco di stampa ma soprattutto perché rinnova l’approccio della pastorale con i migranti, con le realtà ecclesiali delle comunità di altre lingue e riti. Nel testo si riconosce l’errore di valutazione di aver considerato l’emigrazione un fenomeno provvisorio. Oggi si parla di pastorale interculturale che ha come presupposto la reciprocità, quel venirsi incontro nelle due direzioni, i migranti verso le comunità tedesche e le comunità tedesche verso quelle dei migranti. Questo cambia le prospettive. Che ne pensi?
La società effettivamente cambia e la base teologica dell’emigrazione, secondo me, è che siamo popolo di Dio in cammino. Nella pastorale interculturale va sempre valorizzato il fondamento teologico: la costruzione del Regno di Dio e l’essere tutti fratelli.
Nella pratica non è sempre così e per poter giustificare un lavoro d’insieme c’è bisogno di una solida base teologico-spirituale, cioè ciò che il Signore ci chiama a fare: unione, fraternità, amore reciproco, non fare la guerra.
E allora se baso un documento del genere su questa legge divina che è molto più alta, allora ho il fondamento per dire che siamo fratelli tutti e dobbiamo cercare di esserlo veramente.
Fare questo è molto più difficile con il migrante che con i poveri o i bambini, perché il migrante è un adulto, vuole lavorare, vuole prendere in mano la sua vita e vuole un posto. Un povero invece, non toglie il “mio” posto, gli do da mangiare, faccio carità, è un altro livello, mentre il dialogo interculturale sulla base della fede è molto più impegnativo.
Il documento dei vescovi fa riferimento al Vaticano secondo, all’ecclesiologia del popolo di Dio e anche al sinodo universale (2021-2024).
La migrazione ha una dimensione spirituale. L’evangelizzazione è avvenuta lungo i secoli sempre attraverso i popoli che camminano. Questa è una cosa talmente naturale che noi nella Chiesa forse ce ne siamo un po’ dimenticati. La fede va adeguata sempre nella modalità e nella cultura, è sempre un andare incontro. Ci sono tantissimi esempi di come la fede ha dovuto adeguarsi con il linguaggio, con le usanze. Questo vuol dire che la fede si incultura e questo avviene con i popoli che camminano: porto la mia fede allora è lì il lavoro. Il centro che rimane è la fede, è Gesù Cristo. Noi molte volte confondiamo la difesa dei nostri diritti con la difesa della fede e invece non è così, difendiamo la cultura, non la fede e, nella Chiesa, questo non dovrebbe avvenire.
L’espressione della fede ha modi diversi, per questo è importante che ci siano le comunità straniere di altra madrelingua. La propria fede vive e cresce nelle pratiche che ho imparato, ma il contenuto rimane uguale. Se ho una messa di 45 minuti o una messa di due ore, la cosa importante non sono i minuti, ma l’Eucarestia. Non per questo una è più giusta dell’altra. Queste differenze sono solo espressione di culture diverse, ma la Chiesa è madre, la Chiesa è universale e permette tante forme diverse.
Un ultimo argomento vorrei toccare. Abbiamo appena avuto le elezioni politiche in Germania (23 febbraio). Temi che il vento di destra possa soffiare anche nella Chiesa? L’episcopato tedesco mette argini, c’è un loro testo, pubblicato a ridosso delle elezioni europee 2024, dove si afferma che la Chiesa in Germania prende le distanze da ogni forma di estremismo di destra ed etnico e lo ha ribadito anche prima delle elezioni.
Mi ha molto spaventata il linguaggio violento e a aggressivo di certa parte del mondo politico in Germania. Dobbiamo avere un linguaggio più vigile e sobrio per non incentivare con le parole tutto quello che divide. Anche nella Chiesa dobbiamo stare molto attenti, abbiamo il compito di creare ponte, di favorire il cammino d’insieme, di collaborare con la chiesa locale e costruire nuove comunità di comunione. Noi missionarie e missionari che siamo venuti in Germania per lavorare nelle comunità di altra madrelingua abbiamo una grande responsabilità per il futuro delle stesse. Per tanti migranti questa è e sarà la loro casa, anche se non sempre ne sono coscienti perché il cuore e la mente spesso e protesa verso l’Italia. Noi, quando termina il nostro tempo qui, torniamo nelle nostre reciproche diocesi o congregazioni con nuovi impegni missionari, i migranti non sempre lo possono fare. Il nostro lavoro è così importante e fondamentale che lo vorrei paragonare alla ostetricia, far nascer vita nuova in terra straniera affinché questa nuova terra diventi nuova casa per i migranti che sono venuti con tanti sogni e progetti. Qui il Signore c’è, qui il Signore scrive con loro un progetto d’amore.