27 gennaio, Giornata della memoria. Auschwitz, dov’era l’uomo?

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Veduta aerea dell'aeronautica britannica (RAF) del KZ Auschwitz-Birkenau (agosto 1944). Si vede salire il fumo dei crematori. Foto da Wikipedia

Di Michele Illiceto – Auschwitz è il buco nero della storia dell’intera umanità. Un fatto che ancora oggi continua a porre domande alle quali pare sia impossibile dare un’adeguata risposta, nonostante gli storici ci hanno aiutato a ricostruire i fatti, le cause e le responsabilità in termini ideologici, geopolitici, culturali e militari. Solo che questa volta la storia non basta, perché Auschwitz non è un evento storico come gli altri. Esso pone una serie di interrogativi ai quali la storia da sola non riesce a rispondere, perché deborda l’arco di tempo in cui si è consumato e i processi che l’hanno provocata, arrivando a toccare le stesse radici del pensiero, ponendo domande sia alla filosofia che alla teologia, chiamando in causa perfino la nostra capacità di essere uomini razionali, dotati di una coscienza etica e di una responsabilità morale.

Auschwitz è anche una questione di pensiero, forse addirittura costituisce un impedimento a continuare a pensare nel modo in cui abbiamo fatto fino a prima che accadesse. Non per niente, all’indomani della fine della Seconda Guerra Mondiale, l’Olocausto ha messo in crisi l’intera cultura con la sua schiera di pensatori, costituita da filosofi, teologi, poeti, artisti.

Infatti, non per nulla, nel 1949, uno dei maggiori filosofi esponenti della Scuola di Francoforte, T. W. Adorno, aveva dichiarato che «scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie», e lo diceva non tanto per delegittimare la poesia, quanto piuttosto mettere in dubbio la capacità dello stesso pensiero di misurarsi con il dolore inenarrabile e indefinibile che si è sperimentato nei forni crematori  e nelle camere a gas.

Il nodo che Auschwitz non riesce ancora a sciogliere, a livello di pensiero, riguarda non solo il problema del male, ma ancor più la forma estrema e radicale che esso ha assunto. Per questo motivo la Shoah esce fuori dai confini della cronaca storica di quegli anni, e arriva fino a noi per interrogare la nostra coscienza individuale e collettiva, al fine di appurare se, forse, quel male, nonostante tutto, non costituisca una possibilità che, se non stiamo attenti, potrebbe sempre e di nuovo ritornare.

E, allora, la domanda che andrebbe posta è che cosa ha permesso, in quel tempo, a uomini come noi di fare non solo il male, ma quel “tipo” di male, da molti definito “estremo”, “radicale”, “banale”. Quali le radici del male, e tali radici albergano ancora dentro di noi, oppure ne siamo immuni, visto che, potendo fare di essa memoria, possiamo utilizzare quella che il filosofo H. Jonas ha chiamato “l’ermeneutica della paura”, per evitarlo? In altri termini, basta ricordare e fare memoria un giorno all’anno per evitare che in noi e nelle nuove generazioni possa di nuovo tornare un evento come Auschwitz?

Filosofi e teologi quando hanno ragionato sulle eventuali radici del male – e di questa “tipologia” di male –   le hanno individuate o nella cattiveria o nella stupidità (a cui va associata la banalità).

Emblematica a riguardo è la famosa distinzione che il teologo luterano, Dietrich Bonhoeffer, il quale pur non essendo ebreo fu incarcerato e ucciso dai nazisti perché si era opposto a Hitler. Egli, proprio mentre era in prigione, scrisse questo memorabile pensiero:

Per il bene la stupidità è un nemico più pericoloso della malvagità. Contro il male è possibile protestare, ci si può compromettere, in caso di necessità è possibile opporsi con la forza; il male porta sempre con sé il germe dell’autodissoluzione, perché dietro di sé nell’uomo lascia almeno un senso di malessere. Ma contro la stupidità non abbiamo difese. Qui non si può ottenere nulla, né con proteste, né con la forza; le motivazioni non servono a niente. Ai fatti che sono in contraddizione con i pregiudizi personali semplicemente non si crede – in questi casi lo stupido diventa addirittura scettico – e quando sia impossibile sfuggire ad essi (ai fatti), possono essere messi semplicemente da parte come casi irrilevanti. Nel far questo lo stupido, a differenza del malvagio, si sente completamente soddisfatto di sé; anzi, diventa addirittura pericoloso, perché con facilità passa rabbiosamente all’attacco. Perciò è necessario essere più guardinghi nei confronti dello stupido che del malvagio. Non tenteremo mai più di persuadere lo stupido: è una cosa senza senso e pericolosa”.

E che cosa dire della filosofa, anch’ella ebrea, Hannah. Arendt, che seguì da corrispondete il processo ad Eichmann che si svolse a Gerusalemme nel 1961? Secondo la Arendt il problema di Eichmann non è tanto di aver fatto il male, ma di aver smesso di pensare. Il suo non aver avuto il coraggio di pensare con la propria testa. Se lo avesse fatto può darsi che avrebbe trovato il coraggio di indignarsi e di disobbedire.

Ecco come descrive Eichmann la Arendt: “Quanto più lo si ascoltava, tanto più era evidente che la sua incapacità di esprimersi era strettamente legata a un’incapacità di pensare, cioè di pensare dal punto di vista di qualcun altro. Comunicare con lui era impossibile, non perché mentiva ma perché le parole e la presenza degli altri, e quindi la realtà in quanto tale, non lo toccavano. Da una vita monotona e insignificante era piombato di colpo nella storia, cioè, secondo la sua concezione, in un movimento che non si arrestava mai e in cui una persona come lui, un fallito, sia agli occhi del suo ceto e della sua famiglia che agli occhi propri, poteva ricominciare da zero e far carriera. Eichmann ebbe dunque molte occasioni di sentirsi come Ponzio Pilato e col passare dei mesi e degli anni, non ebbe più bisogno di pensare”.

Ecco una cosa che di certo la Shoah ci può insegnare: quella di disobbedire al potere quando questi ci comanda di commettere un un’ingiustizia. Come ha fatto anche Socrate che non si è adeguato alla mentalità dei suoi concittadini ateniesi e ha preferito morire piuttosto che piegarsi al potere, perché come dice il grande filosofo nell’Apologia scritta in seguito da Platone, la malvagità corre più veloce della morte.

Nonostante Auschwitz, quindi una speranza resta comunque certa e a darcela è proprio  Arendt, la quale, interrogata se esistesse il male radicale e se esso fosse più forte dello stesso bene, rispose nel suo famoso libro dal titolo La banalità del male, modo seguente: “Quel che ora penso veramente è che il male non è mai radicale, ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla superficie come un fungo. Esso sfida, come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua banalità. Solo il bene è profondo e può essere radicale”.

Tocca a noi, impedire che il male rubi la scena al bene, e, con essa, rubi anche la sua immensa e nascosta profondità. Come farlo? Rifiutando l’indifferenza e l’apatia, e tenendo sempre desto il pensiero per impedire alle ombre che ci portiamo dentro di prendere lentamente il sopravvento.